Scienze

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Cosa possono fare le viti native per noi?

15 Maggio 2018 Elena Erlicher
Vite nativa significa selvatica, cioè vitis sylvestris. Stiamo parlando della pianta proveniente dalla regione del Caucaso che, a seguito dei processi di domesticazione in diverse aree del pianeta, ha dato origine alla vitis vinifera, quella che oggi rappresenta il 99% delle viti coltivate al mondo. Il professor Mario Fregoni, tra i massimi studiosi di viticoltura al mondo, ha dedicato a Le viti native americane e asiatiche il suo ultimo libro.

Perché studiare le viti native

Perché non quelle europee, vien quasi spontaneo chiedersi? «Perché non esistono più», spiega Fregoni. «Quelle che coltiviamo da noi hanno origini asiatiche». E come mai studiare queste varietà è ancora così importante per la viticoltura di oggi? La maggior parte di loro non sono interessanti perché producono uva commercialmente valida - non sono in grado di dar vita a vini qualitativamente validi come la vitis vinifera - ma perché sono fonti preziose di caratteri di resistenza a fattori di stress biotico e abiotico.

Le viti native, naturalmente resistenti

La vitis amurensis (asiatica), per esempio, resiste fino alla temperatura di -40 °C, la caribaea si adatta al caldo umido e la Isabella, la ben nota uva fragola (americana), affronta bene freddo, peronospora, oidio, Botrytis, ma poco la fillossera. Alcune di queste sono state, utilizzate per ottenere ibridi produttori, altre per creare i portainnesti, come quelli americani che hanno salvato dalla fillossera la viticoltura europea a fine Ottocento. Di ogni vite nativa, ibrido e portainnesto è narrata la storia, sono spiegate le caratteristiche viticolo-enologiche e le prospettive a livello internazionale.

Dove va la scienza

«Ad oggi, in Italia, sono una decina gli ibridi iscritti al Registro nazionale delle varietà di vite», continua Fregoni, «e si possono usare solo per dar vita a vini da tavola, non a denominazione. La genetica moderna potrebbe riuscire a unire i caratteri di resistenza e di qualità, ma la sperimentazione richiede il tempo necessario, che è ancora assai lungo. Sono due le vie per allevare la vite: una genetica e una biologica/biodinamica».

Meglio la via genetica o biologica?

«La via genetica», specifica Fregoni, «prevede la modificazione del genoma della pianta e la creazione di ibridi produttivi, che però allo stadio attuale degli studi non permettono di produrre vini di qualità. La seconda via funziona un po’ come una vaccinazione: ogni anno bisogna trattare la vite con composti di origine organica per aumentare la resistenza alle malattie. Personalmente propendo più per la seconda via, anche se, anche in questo caso, la sperimentazione non è ancora sufficiente».     Le viti native americane e asiatiche Città del vino 25 euro pp. 146

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