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Come esportare vino senza perdere l’anima

22 Luglio 2016 Civiltà del bere

di Luciano Ferraro

  «Ora vendo più Barolo in Italia, una bottiglia su dieci. Anzi, un po’ meno, esporto il 91% del mio vino. Fino a qualche anno era il 95%». Mauro Mascarello, il barolista del Monprivato, deve tutto a un cultore di musica antica e un ingegnere nucleare. Quarantasette anni fa sono stati i primi importatori negli Stati Uniti. La storia è la perfetta rappresentazione dell’assenza dello Stato nel sostegno dei vignaioli italiani all’estero. Sostegno essenziale ora più che mai: perché qui si beve sempre meno e non c’è altra strada per far tornare i conti in cantina, esportare di più. Se va tutelata la dimensione del piccolo vignaiolo artigiano con qualche migliaio di bottiglie, va allo stesso tempo promossa la rete delle piccole e medie aziende del vino che contribuiscono alla vitalità dell’economia italiana.

Quando abbiamo capito come esportare vino

Nel 1967, quando Verona ospitò la prima edizione del Vinitaly (l’evento si chiamava Giornate del Vino Italiano) un giornalista del Corriere della Sera descrisse lo stato dell’arte in un articolo di poche righe. Anni di Guerra Fredda, il titolo di apertura del giornale informava sull’ultima mossa del russo Gromyko: la richiesta agli Stati Uniti di ritirarsi da Vietnam e Corea. L’Italia, si legge sul Corriere dell’epoca, allora esportava solo il 4% del proprio vino. Ma si consumava vino molto di più nelle nostre famiglie, nelle osterie e nei ristoranti: 106 litri l’anno pro capite contro i 37 di adesso. In quel piccolo articolo si descrivevano con lungimiranza i passi da fare per la crescita del settore: innovazione, lotta alle frodi e nuove tecniche per vendere nei nuovi tempi.

Più tardi, il successo del Prosecco

Il poeta Andrea Zanzotto, proprio nel 1967, assisteva sconsolato alla diffusione delle “villette-benessere sulle colline venete”, necessarie per dare un tetto a molte famiglie ma che “rompevano l’equilibrio tra borghi storici e edifici rurali”. Poi sono arrivati i capannoni in pianura, con il boom del Nordest e la fame di “schei”, descritta nel libro di Gian Antonio Stella con questa parola come titolo. Solo molti anni più tardi sarebbe scoppiato il successo mondiale del Prosecco. Un percorso che ha trasformato il territorio, ora diviso in due: villette e capannoni spesso svuotati dalla crisi e attorniati da vigne in pianura (fino a lambire il casello autostradale di Vittorio Veneto), vigne ovunque, anche nei giardini delle case, sulle colline. Con questo modello il Prosecco Doc è riuscito a raggiungere il tetto del 70% di bottiglie esportate (il Prosecco Docg si attesta al 40%).

Qualità e radici alla base

Quando i due intellettuali che importavano negli Usa solo vino francese si presentarono a casa di Mascarello, lui li avvertì: non posso vendervi il vino per portarlo così lontano, mi hanno spiegato che dovrei pastorizzarlo, ma non voglio farlo. Gli americani gli spiegarono che non era necessario, e le prime casse vennero spedite. Il flusso non si è più fermato, aumentando anno dopo anno. Anche quando, ricorda Mascarello, c’era la moda dei Barolo più moderni, «ma io non ho mai voluto cambiare stile». Una storia aziendale che andrebbe raccontata nelle università, per spiegare ai ragazzi che una delle chiavi del successo è la qualità del prodotto e l’attaccamento alle proprie radici, senza seguire le mode.

L'importanza dell'e-commerce

Il Barolo di Mascarello non teme flessioni di domanda dall’estero. Il vino italiano però, se vuole farsi strada nel mondo, deve continuare a crescere, aumentando l’export. Torna quindi l’intuizione di mezzo secolo fa, segnalata dall’inviato del Corriere a Verona: bisogna trovare “nuove tecniche per vendere nei nuovi tempi”. L’e-commerce è una strada obbligata, ma prima ancora serve esplorare nuovi mercati. Come sta facendo, ad esempio, la veneta Nadia Zenato, che si è affacciata in Angola, Mozambico e Tanzania. O con nuove sfide, come quelle dei prosecchisti dei vigneti Doc che sono riusciti a vendere nel 2015 7 milioni di bottiglie in Francia, il regno delle bollicine.  
Questo articolo è tratto da Civiltà del bere 03/2016. Per leggere gli altri articoli acquista il numero nel nostro store (anche in edizione digitale) o scrivi a store@civiltadelbere.com. Buona lettura!

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