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Davvero Veronelli diceva che solo piccolo è bello?

17 Marzo 2017 Cesare Pillon
“Piccolo è bello” è uno slogan che ha permeato di sé il Rinascimento del vino italiano: stava scritto sul vessillo di Luigi Veronelli quando l’alternativa della qualità era tra l’azienda agricola e l’industria vinicola. E quella, bisogna ammetterlo, era una scelta di campo molto convincente: nell’immaginario collettivo la piccola impresa vitivinicola è quella più profondamente legata alla terra, e la sua dimensione limitata consente al vignaiolo di prestare sia alla vigna che alla cantina cure minuziose, artigianali, grazie alle quali il suo vino può raggiungere livelli elevatissimi di qualità. Non solo, gli conferisce anche il coraggio di tentare strade nuove, di sperimentare innovazioni, di accettare sfide. E difatti lo scossone che ha fatto recuperare due secoli di ritardo alla qualità del vino italiano, portandolo all’odierno successo, è stato impresso con il contributo determinante delle piccole aziende.

Lo slogan come verità assoluta

Ragion per cui, visto come erano andate le cose, nessuno si è preoccupato di sottoporre quello slogan a una verifica critica, con il risultato di dargli la patente di verità conclamata, di farne un luogo comune. E il luogo comune, in un Paese diviso in fazioni contrapposte come l’Italia, non ci mette niente a diventare un’intransigente e intollerante ideologia.

Il travisamento del pensiero di Veronelli

Cosicché, mentre Veronelli sosteneva che il “piccolo è bello” come provocazione, adesso sul web si dà invece per scontato che solo il “piccolo è bello”. C’è stato quindi un capovolgimento di fronte: una frase positiva inventata per promuovere il piccolo oggi viene utilizzata in senso negativo per demonizzare il grande. Ma che cos’è il piccolo, che cos’è il grande? E poi: perché mai la dimensione aziendale dovrebbe essere, in rapporto inverso, la misura della qualità? Lo stesso Veronelli sapeva benissimo che come tutti gli slogan anche il suo era semplificatorio, tant’è che non ha mai fatto mancare il suo sostegno, per esempio, a Piero Antinori, la cui azienda non era certo piccola neanche allora.

L'esempio di Angelo Gaja

Lo era forse quella di un altro vignaiolo caro a Veronelli, Angelo Gaja, che oggi però tanto piccola non lo è più: conta 100 ettari nelle Langhe, 110 a Bolgheri e 27 a Montalcino, produce complessivamente poco meno di 900 mila bottiglie all’anno e dispone di un’organizzazione commerciale molto efficiente, Gaja Distribuzione. Eppure neanche il più feroce dei suoi detrattori si sognerebbe di definire Gaja un industriale del vino.

Artigiani e imprenditori allo stesso tempo

Certo non è un vignaiolo, lo ammette lui stesso quando lo intervistano: preferisce qualificarsi imprenditore agricolo e del suo successo dice: «È frutto di una continua, spasmodica ricerca della qualità e di una dimensione aziendale a misura di viticoltore artigiano, di un tipo di imprenditore, per intenderci, che, se un anno la vendemmia non è all’altezza degli standard qualitativi, non imbottiglia. Vende tutto come sfuso e aspetta l’anno dopo».

Qual è il confine tra piccolo e grande?

L’affermazione “piccolo è bello”, insomma, va interpretata: oltre alla passione che spinge alla ricerca della qualità assoluta, include il concetto di artigianalità, senza la quale il piccolo non può essere bello. Anzi, è proprio l’artigianalità e non la dimensione a segnare il confine tra piccolo e grande. Ma le parole di Gaja invitano anche a non dimenticare il concetto troppo spesso sottovalutato di imprenditorialità: senza quella il piccolo sarà anche bello, ma rischia di scomparire immaturamente per inefficienza gestionale. Insomma, questo slogan così immediato in realtà è molto più complesso di quanto non supponga chi, banalizzandolo, la brandisce come un’arma impropria. Sbagliando avversario, oltre tutto.  
Questo articolo è tratto da Civiltà del bere 01/2017. Per continuare a leggere acquista il numero nel nostro store (anche in edizione digitale) o scrivi a store@civiltadelbere.com. Buona lettura!

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