Lontani dalla logica dei second vin, i produttori nostrani preferiscono differenziare i vini di questa categoria puntando a dar vita a bottiglie che hanno una loro propria identità, anche se richiama quella dei fratelli maggiori. Ecco i casi più noti.
Capire i secondi vini non è facile. Almeno non per chi scrive che ammette di averci messo un po’. Alla base c’è un motivo tecnico. Questa tipologia intesa in senso bordolese è in genere il risultato di una selezione di uve da vigne giovani o di un maggiore utilizzo del pressato. E il pressato, croce e delizia di tutti gli enologi, è un elemento complesso da gestire tanto quanto da interpretare. Ad aprire la mente di un giornalista alle prime armi fu l’enologo tra gli altri di Lungarotti, Lorenzo Landi. I vini con percentuali alte di pressato mostrano una struttura piuttosto marcata ed evidente, anche al confronto dei loro fratelli maggiori. Allo stesso tempo, risultano anche più complessi, come fossero più evoluti. Possibile? Sembra una contraddizione, ma in realtà non lo è. Perché il pressato è una materia molto ossidativa e quindi il vino risulta strutturato sì, ma anche più evoluto. Compreso questo passaggio, un giornalista a mio avviso non può non innamorarsi dei secondi vini, perché escono con anticipo rispetto agli altri e suggeriscono l’evoluzione che faranno i primi vini da cui derivano. Rappresentano, insomma, una fonte di notizie attendibili di prima mano.
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