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Cosa resta dell’ultimo Vinitaly? La riflessione di Luciano Ferraro

11 Giugno 2024 Luciano Ferraro
Cosa resta dell’ultimo Vinitaly? La riflessione di Luciano Ferraro
© robertindiana - shutterstock

L’appuntamento veronese è stata l’occasione per accendere i riflettori sul grande tema del rapporto tra vino e salute. Ma anche sui dealcolati, che incuriosiscono e pongono nuove sfide sia ai produttori che al governo

Cosa resta dell’ultimo Vinitaly? L’edizione 2024 va in archivio con buoni numeri per presenze e contratti stipulati agli stand. La vigilia è stata incupita dai venti di guerra, dall’Iran a Israele. L’apertura dei banchetti, l’imponente serie di incontri-convegni-masterclass e la girandola di ministri hanno subito fatto accantonare l’attualità. I 100 mila metri quadrati di Veronafiere diventano nei giorni del Vinitaly un mondo separato, che si autodistanzia dal reale, salvo per quanto riguarda gli ostacoli al traffico commerciale, dovuti spesso alle guerre, talvolta a disastri come il crollo del ponte di Baltimora, che ha limitato l’attività portuale.

L’omaggio a Piero Antinori

Di sicuro resta la serata al teatro Ristori con Piero Antinori sul palco. Pacato, brillante e autoironico, Antinori ha portato in scena se stesso e la sua carriera, parlando di gioventù e famiglia, genesi di grandi vini e vestiti sartoriali ormai stretti, debutti in famiglia (dell’allora diciasettenne Albiera, la figlia maggiore, rimasta sola in Canada ad affrontare il ringhio di disapprovazione nel giorno in cui scoppiò lo scandalo del metanolo), di successione e conquiste americane. In 58 anni (Piero entrò in azienda nel 1966) Marchesi Antinori è stata trasformata in un’azienda agricola con più di 2.500 ettari, un faro per il vino italiano nel mondo. Quel lungo periodo storico che va dal boom economico degli anni Sessanta alla crescita dei consumi negli anni Ottanta e Novanta, sembra irripetibile.

Il rapporto alcol-salute

I due temi (ma forse è un unico grande tema) che più hanno scosso i professionisti del vino sono i dealcolati e il rapporto tra alcol e salute. Il ministro Francesco Lollobrigida ha preso una posizione netta, spiegando che i dealcolati non possono essere chiamati vini, perché non sono integri, eliminando gli effetti del millenario procedimento di fermentazione alcolica.
È stato straniante sentire molte aziende chiedere al governo di fissare le regole per togliere l’alcol al vino. Come partecipare a un convegno di chef e imbattersi in disquisizioni sui benefici del digiuno.
Ma la pressione salutista tra i consumatori avanza e le Cantine vedono questa nicchia di mercato come una fonte di nuovi ricavi, per bilanciare la diminuzione del consumo di vino, soprattutto tra i giovani.

Serve un aggiornamento delle linee guida

Il governo ha innanzitutto il dovere di fare chiarezza sul caso salute. Anche perché la questione delle etichette con gli allarmi sanitari, caldeggiate da più Paesi europei, è tutt’altro che risolta. Negli ultimi mesi, alcuni medici non hanno perso occasione di condannare anche l’uso saltuario di vino (salvo poi farsi ritrarre mentre festeggiano con un brindisi), ottenendo risonanza mediatica. Altri hanno risposto sostenendo tesi opposte. Uscirne non è difficile: il ministero della Sanità indichi quali sono le linee guida aggiornate sul consumo di vino, per uomini e donne. Chiarisca qual è lo stato dell’arte della scienza, come si stanno preparando a fare gli Stati Uniti e il Canada. Sarebbe un modo per evitare che un tema serio come la nocività dell’abuso di alcol diventi materia di chiacchiericcio.

La questione dei vini dealcolati

Perché? Ecco cosa ha scritto sul tema il giornalista Michele Serra, di la Repubblica: “Il salutismo forsennato, che ci illude di diventare quasi immortali, ma chiusi in una gabbia sterile… come ogni forma di proibizionismo, trasforma una buona causa, la salute, in un dovere morale. E tra dovere e piacere, ci sarà pure un dosaggio ‘a misura d’uomo’… Un bicchiere? Due?”.
Presto Lollobrigida dovrà decidere come affrontare il mercato dei dealcolati. Esiste un regolamento europeo che l’Italia non ha recepito. Con il paradosso che le aziende italiane vinificano all’interno dei confini, ma dealcolano all’estero, in Germania e in Spagna, soprattutto. Così devono vendere a prezzi più cari dei concorrenti esteri. Chissà, magari al prossimo Vinitaly ci sarà un padiglione di dealcolati.

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