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Le quote rosa nel vino sono il minore dei mali

20 Gennaio 2017 Cesare Pillon
Mi torna in mente una notizia di qualche mese fa: la proposta di introdurre la “parità di genere” nei consigli d’amministrazione dei consorzi di tutela dei vini. Chiedo scusa se questa volta, eccezionalmente, scrivo in prima persona: le considerazioni che intendo esporre su questo tema sono personali e non sarebbe corretto fossero attribuite a Civiltà del bere. Fatta questa premessa posso confessare che non so quale fine abbia fatto quella proposta ma che a me, in ogni caso, le “quote rosa” danno fastidio. Mi sembrano un modo sbagliato di soddisfare una giusta esigenza, quella di garantire alle donne le stesse opportunità di cui hanno sempre goduto gli uomini.

Le aziende delle donne nel mondo del vino

Si è visto di che cosa sono capaci, le donne, quando questa garanzia viene data realmente. È successo subito dopo la Seconda guerra mondiale, quando fu riconosciuto il loro diritto al voto: tutti i passi avanti che ha fatto da allora la condizione femminile in Italia discendono da quella storica conquista. In particolare ho potuto rendermi conto di persona, da quando mi occupo professionalmente di vino, della rivoluzione che esse hanno operato in questo campo. Ancora trent’anni fa le aziende agroalimentari erano gestite unicamente da uomini, oggi le donne ne dirigono 835.367, cioè il 28,1% del totale, e la percentuale sale addirittura al 33% fra le aziende agricole.

Viva la differenza!

Intendiamoci: non penso affatto che basti lasciar fare alle donne perché ottengano i ruoli di rappresentanza che finora non hanno avuto a causa di una cultura ch’è rimasta sostanzialmente maschilista. Ma mi chiedo: è giusto che li abbiano con le quote rosa? Il mio fastidio nasce dal fatto che non ho una soluzione migliore da proporre. Nessuno però mi toglie dalla testa che la “parità di genere” sia una pericolosa astrazione: l’uomo e la donna, il maschio e la femmina, sono diversi (e meno male che lo sono: viva la differenza!). Le atlete che tante soddisfazioni hanno dato all’orgoglio nazionale alle Olimpiadi e Paraolimpiadi di Rio de Janeiro si sono misurate con altre donne: le discipline sportive, non potendo ignorare le differenze fisiche, debbono tener conto della “diversità di genere” e ripartiscono le competizioni tra i due sessi.

Aspirazioni ed interessi

Mi rendo conto che gli organismi di potere, come il governo, le giunte comunali, i consigli d’amministrazione, non possono adottare questa soluzione e mi è anche evidente che i loro membri dovrebbero essere maschi e femmine in numero pressoché pari per esprimere nella giusta proporzione le aspirazioni e gli interessi di coloro che sono chiamati a rappresentare. Ma a scegliere ministri e assessori in base al sesso ci si ritrova con la ministra Beatrice Lorenzin e l’assessora (o assessoressa?) Paola Muraro. Il timore è che avesse ragione Henri-Frédéric Amiel, quando se la prendeva con il diritto astratto all’Uguaglianza, sostenendo che il diritto pubblico fondato su di esso andrà in pezzi, “perché non riconosce la disuguaglianza di valore, di merito, di esperienza, cioè la fatica individuale: culminerà nel trionfo della feccia e dell’appiattimento. L’adorazione delle apparenze si paga”. Ma io preferisco ispirarmi a Winston Churchill e alla sua celebre battuta sulla democrazia: penso che le quote rosa siano una pessima iniziativa, ma tutte le altre sono peggiori.  
Questo articolo è tratto da Civiltà del bere 06/2016. Per continuare a leggere acquista il numero nel nostro store (anche in edizione digitale) o scrivi a store@civiltadelbere.com. Buona lettura!

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