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Perché il Moscato non vuole Asti?

2 Marzo 2012 Civiltà del bere

Un momento d’oro dal punto di vista delle vendite eppure pericolose contraddizioni interne. Una crescita produttiva vertiginosa che ha toccato lo storico di 107 milioni di bottiglie nel 2011 provocata soprattutto dall’entrata in scena di aziende di grandi dimensioni. La denominazione di origine che non comprende il comune di Asti. La querelle aperta dal produttore Gianni Zonin

Ci vorrebbe un astrologo per capire come mai l’Asti Spumante e il Moscato d’Asti, nel momento del loro massimo successo, sono dilaniati da contraddizioni così acute che rischiano di paralizzare il loro stesso sviluppo. Perché un astrologo? Perché una situazione così assurda e intricata può essere stata generata soltanto dal malefico influsso di qualche congiunzione celeste, alla quale è legittimo sospettare che i due vini piemontesi a Docg siano più sensibili degli altri perché sono i soli di cui si conosca con certezza la collocazione zodiacale: figli della stessa uva, il Moscato bianco di Canelli, non possono che appartenere al segno dei Gemelli. Gemelli? Fino a qualche anno fa, a dire il vero, sembravano alquanto diversi: rifermentato in autoclave e prodotto con le bollicine in alcune decine di milioni di bottiglie dalle industrie vinicole, lo Spumante aveva un’immagine di prodotto di massa con un buon rapporto qualità-prezzo ma non molto di più, mentre il Moscato, frizzante naturale realizzato in pochi milioni di esemplari da aziende agricole di piccola e media dimensione, era considerato un vino di nicchia con qualche quarto di nobiltà. [emember_protected] Però negli ultimi anni le cose sono cambiate e il Moscato è diventato famoso su scala internazionale perché soddisfa alcune esigenze dei consumatori odierni: piacevole, leggero, frizzante, dolce e aromatico, è poco alcolico ed è facilmente riconoscibile anche dai non esperti. La moda, partita dagli Stati Uniti e innescata non a caso da grandi aziende californiane di oriundi italiani come i Gallo e i Trinchero, ha creato delle opportunità che i due vini piemontesi Docg hanno cercato di cogliere: l’anno scorso la loro produzione complessiva ha toccato il massimo storico di 107 milioni di bottiglie. L’aspetto più interessante di questo inatteso successo è che a crescere a ritmi vertiginosi è stato il Moscato: il suo mercato, che nel 2007 non arrivava a 10 milioni di bottiglie, l’anno scorso ha toccato il livello record di 25,6 milioni, con un balzo del +28% rispetto al 2010. L’Asti Spumante però non ne ha sofferto: la sua espansione è continuata lo stesso, anche se a tassi più contenuti, che hanno toccato il massimo proprio nel 2011 con un ragguardevole +15%. La tumultuosa lievitazione delle vendite ha inevitabilmente diminuito le differenze tra i due gemelli: con una diffusione così vasta il Moscato non è più un prodotto di nicchia, e difatti il suo prezzo medio è in ribasso. Con grave disappunto delle piccole aziende, che dalla “Moscatomania” non hanno tratto vantaggi, giacché continuano a produrre 6 milioni di bottiglie come prima: come potrebbero andare oltre, vinificando esclusivamente le uve di proprietà? A provocare l’epocale aumento di produzione sono state, infatti, aziende vinicole di più grandi dimensioni, già produttrici di Asti Spumante, che hanno spostato il loro interesse anche sul Moscato d’Asti, proprio perché l’impossibilità dei piccoli vitivinicoltori di soddisfare la crescente richiesta di mercato apriva la prospettiva di un vuoto da riempire, con tassi di crescita altissimi, che effettivamente si sono realizzati. «Il loro problema, però, è il prezzo», spiega il direttore del Consorzio di tutela, Giorgio Bosticco. «I Moscato californiani vengono venduti da 4 a 6 dollari la bottiglia, mentre i nostri Docg non costano meno di 12-15 dollari. Inevitabile quindi che chi intende fare grandi numeri cerchi in tutti i modi di abbassare i prezzi tagliando i costi di produzione». Chi si è posto questo obiettivo non manca certo di esperienza, sul modo di minimizzare le spese. Se l’è fatta con l’Asti Spumante, pur dovendo fare i conti con un disciplinare di produzione che, preoccupandosi di impedire che una battaglia fino all’ultimo centesimo svilisca l’immagine del vino, pone limiti di vario genere, imponendo per esempio l’uso di bottiglie di almeno 630 grammi. «Con il Moscato d’Asti», spiega Romano Dogliotti, titolare dell’azienda storicamente più significativa, «hanno avuto invece le mani più libere perché il disciplinare non si era preoccupato prima d’ora di impedire la banalizzazione del prodotto: i piccoli produttori si sono sempre dati battaglia sul piano della qualità, per aumentarne il pregio, non per abbassarne il prezzo». Tutto ciò non poteva che provocare tensioni, astiosità e risentimenti in un ambiente complesso come quello dell’Asti, in cui s’intersecano gli interessi contrastanti di viticoltori, vinificatori, vitivinicoltori, soci di Cantine cooperative, imbottigliatori, con un Consorzio di tutela che tenta di mediare, pressato da una piccola galassia di litigiose associazioni l’una contro l’altra armate. Su questo ambiente ad alta infiammabilità grava da sempre la minaccia di una bomba a orologeria che potrebbe esplodere in qualunque momento. Quale? Semplicemente questa: la denominazione d’origine dei due vini potrebbe essere invalidata, se qualcuno lo richiedesse a una Corte di giustizia internazionale, perché è menzognera. Intitolata ad Asti, inganna il consumatore: nel suo vastissimo territorio di produzione, che comprende 52 comuni di tre province, Asti non c’è. A disinnescare la bomba ci ha provato quattro anni fa l’allora ministro dell’Agricoltura Paolo De Castro con un decreto del 5 maggio 2008 che sanava la lacuna inserendo la città di Alfieri nell’area delimitata per la produzione di Asti Spumante e Moscato d’Asti. Non l’avesse mai fatto! Erano gli ultimi giorni del governo Prodi e nella fretta di eliminare quell’assurdo paradosso con il timore di non averne il tempo, De Castro commise un errore: agì d’ufficio, saltando l’iter previsto per le variazioni di disciplinare, che prevede l’esame da parte del Comitato vitivinicolo regionale e soprattutto l’audizione pubblica con i produttori della denominazione. Apriti cielo! La situazione prese subito una brutta piega perché quella maldestra iniziativa aveva un fruitore pressoché unico: Gianni Zonin, l’imprenditore vitivinicolo veneto che nella tenuta Castello del Poggio, a Portacomaro, nel territorio comunale di Asti, aveva impiantato una ventina di ettari a Moscato. L’irritazione per il mancato rispetto delle regole si ritorse perciò contro di lui, che venne immediatamente additato come un arrogante forestiero che aveva preteso un decreto ad personam per includere nella zona d’origine i terreni del comune di Asti, che alcuni ritengono inadatti alla coltivazione di quel vitigno, al fine di trasformare il banale Vino da Tavola che lì poteva produrre in pregiato Moscato d’Asti Docg. E senza nemmeno pagare i diritti di reimpianto, com’è diventato indispensabile fin dal 2002, quando la Regione Piemonte ha bloccato l’aumento degli ettari vitati per le Docg gemelle. E poiché i diritti di reimpianto costano 50 mila euro a ettaro, Zonin aveva risparmiato nientemeno che un milione di euro. A farsi portavoce della protesta fu l’Assomoscato, cioè l’Associazione Produttori Moscato d’Asti, che presentò ricorsi al Tar del Lazio e al Consiglio di Stato e tanto si diede da fare che riuscì a far annullare nel febbraio 2009 l’improvvido decreto De Castro, che però, com’era logico, fu invalidato solo per motivi formali, a causa del non corretto iter seguito. Rimediare perciò non sembrava difficile, bisognava semplicemente ripetere l’operazione nel rispetto della normativa. E poiché il Consorzio di tutela stava già apprestando importanti modifiche al disciplinare delle due Docg, bastava che vi aggiungesse anche l’inserimento del comune di Asti nella zona di produzione e il gioco era fatto. A Zonin, che del Consorzio è socio, producendo nel territorio della Docg 300 mila bottiglie di Asti e 180 mila di Moscato, non fu difficile ottenere quell’aggiunta, tanto più che dichiarò che intendeva finanziare, con il milione di euro che veniva accusato di voler risparmiare, una campagna promozionale triennale a favore di Asti Spumante e Moscato d’Asti. A questo punto cominciano però quelle che Gigi Brozzoni, direttore del Seminario Veronelli, ha definito “storie di ordinaria follia”. Primo atto: durante la discussione in Regione, il gruppo di produttori che si riconosce in Assomoscato e Coldiretti riesce a far cancellare l’inserimento di Asti come 53° comune del territorio di produzione e il testo così depennato, con l’avvallo dall’assessore regionale all’agricoltura Claudio Sacchetto, viene spedito a Roma, dov’è approvato dal Comitato nazionale vini, che lo pubblica sulla Gazzetta Ufficiale come proposta definitiva di modifica del disciplinare. Secondo atto: Zonin ovviamente non si dà per vinto e presenta ricorso, preoccupandosi di osservare il più rigoroso rispetto delle procedure burocratiche, con l’appoggio del sindaco di Asti, Gianni Galvagno. E tra le contro-deduzioni che presenta ce n’è una che smantella la più pericolosa insinuazione della controparte: sulla base di un approfondito studio scientifico, il professor Lorenzo Corino, direttore dell’Istituto sperimentale di viticoltura di Asti, documenta l’esistenza, nel territorio comunale astigiano, di suoli e ambienti adattissimi per ottenere uve di Moscato di eccellente qualità. Ma è tutto inutile: il terzo atto subisce la nefasta influenza di astri dispettosi. Il Comitato nazionale vini, presieduto da Giuseppe Martelli, respinge il ricorso, con una votazione a scrutinio segreto, per 8 no, più una scheda nulla, contro 22 sì. Proprio così: la maggioranza richiesta è di 3/4, e al quorum manca almeno un voto, quindi vincono gli 8 no. Conclusione? Ricorsi permettendo, entra ora in funzione un disciplinare che, pur mutilato, contiene parecchie novità positive: regolamenta due varianti, lo Spumante Metodo Classico e il Moscato vendemmia tardiva, riconosce tre zone elette, Canelli, Santa Vittoria d’Alba e Strevi (con l’orrenda definizione di sottozone), ma ha un piccolo difetto, è fuori legge. Contraddice infatti il decreto legislativo n. 61 dell’8 aprile 2010, che recependo gli orientamenti dell’Unione europea in vitivinicoltura, all’articolo 4 spiega che “le zone di produzione delle denominazioni di origine possono comprendere, oltre al territorio indicato con la denominazione d’origine medesima, anche territori adiacenti o vicini”. Il che vuol dire che la denominazione d’origine Asti non può esistere se non c’è il territorio comunale di Asti nella zona di produzione. Gianni Zonin ha deciso per ora di ricorrere al Tar del Lazio, ma se sarà costretto dovrà rivolgersi alla Corte di giustizia europea, visto che da gennaio la gestione delle denominazioni d’origine è passata di competenza a Bruxelles. Ma il giorno in cui della questione dovessero occuparsi gli organismi sovranazionali, il rischio che invalidino la Docg Asti per millantato credito è altissimo. Non molti, nella zona, sembrano averne la percezione. La filiera è infatti profondamente divisa, e non solo su questo tema: due anni fa alcune aziende di gran nome hanno clamorosamente abbandonato il Consorzio di tutela per dissensi sul modo in cui ha curato la promozione dei due vini (“Guerra e pace del Moscato”, Civiltà del bere aprile 2010). «Questi litiganti», dice Donato Lanati, titolare dell’Enosis, il più avanzato centro di ricerca enologica d’Italia, «non si rendono conto che su scala mondiale le bottiglie di Moscato sono 2 miliardi, e i loro 100 milioni sono i più pregiati, è vero, ma sono soltanto il 5% e rischiano di essere schiacciati dai competitori. Sarebbe necessaria una massa d’urto più consistente, ma finora, per ottenerla, si è pensato soltanto a un aumento delle rese per ettaro, che abbasserebbe la qualità del prodotto. Bisognerebbe fare invece come i francesi, che hanno ampliato la zona di produzione dello Champagne. L’inclusione di Asti, oltre che doverosa per giustificare la denominazione, poteva essere un primo passo su questa strada. L’obiezione che fuori dell’attuale zona i terreni sono inadatti per impiantarvi il Moscato è falsa: meglio sarebbe allargare il territorio delimitato ma autorizzare alla coltivazione esclusivamente i terreni realmente vocati a questo vitigno. Dopo accurate verifiche, da svolgere però anche nella zona storica. Scommettiamo che ci sarebbero delle sorprese?».  

Un veneto ad Atlanta che ha fatto fortuna col Moscato d’Asti

«Quando abbiamo introdotto il nostro Moscato d’Asti negli Stati Uniti eravamo veramente fra i primi. Ho avuto l’intuizione di esportare questo prodotto sei o sette anni fa, quando mi sono reso conto che era veramente eccezionale e che era un peccato non fosse conosciuto. I nostri clienti lo hanno capito subito e l’hanno apprezzato molto». È con queste parole che Armando De Zan, un veneto che opera ad Atlanta con l’Arel Wine & Spirits Group spiega come mai conta di vendere quest’anno 2 milioni di bottiglie di Moscato d’Asti con il suo marchio più famoso, Candoni, e altri 5 milioni e mezzo con marchi diversi. Lui da solo, insomma, smercia quasi il 30 per cento dell’intera produzione italiana di questa Docg. E il lato più sorprendente è che per riuscirci non ha puntato sul prezzo, ma sulla qualità: difatti le sue bottiglie vengono pagate 12-13 dollari l’una. «La nostra strategia?», spiega: «Ottima qualità, prezzi corretti, packaging innovativo». Molto successo ha infatti avuto con il Moscato d’Asti in bottiglia blu. Il blu dipinto di blu ha sempre portato fortuna all’Italia. [/emember_protected]

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