Il linguaggio del vino rischia di oscillare tra due estremi: da una parte un racconto banale e senza passione, dall’altra un approccio troppo elitario e culturale. Per conquistare i consumatori bisogna riuscire a essere più popolari, senza però apparire scontati. Le riflessioni del giornalista Luciano Ferraro tratte dal n. 3/2022 di Civiltà del bere.
Sociologo cercasi. Per cambiare registro narrativo e conquistare nuovi consumatori. Trentasei anni dopo lo scandalo del metanolo, urge un cambiamento della comunicazione sul vino. All’epoca, con la crisi di immagine che sconvolse il mercato, i produttori capirono che era caduto il mito della genuinità in bottiglia. L’emblema culturale di quel periodo era lo scrittore e regista Mario Soldati, che cercava e raccontava i cibi e i vini genuini nei suoi viaggi nell’Italia rurale.
L’intuizione di Planeta e Fabris
Fu Diego Planeta il più veloce a capire che non era più tempo di fare leva sulla rappresentazione di un’Italia contadina sana, con valori morali inattaccabili, magari imperfetta quanto a limpidezza e correttezza enologica dei prodotti di cantina, ma lontana dal concetto di sofisticazione. Planeta, all’epoca il dominus del vino siciliano, chiamò da Milano un sociologo, Giampaolo Fabris, e lo affiancò al più importante enologo del Dopoguerra, Giacomo Tachis, che aveva già creato il Sassicaia. Tachis selezionò i vitigni su cui puntare, Nero d’Avola in testa. Fabris usò la sua teoria sugli stili di vita: l’uomo è ciò che acquista, quindi la popolazione si può dividere in categorie, dalle formichine agli individualisti. E le aziende, tenendo conto dei loro obiettivi di marketing, devono plasmare la comunicazione per raggiungere una o più categorie.
Fabris è stato il sociologo che inventò il personaggio Giovanni Rana. Fu a lungo consulente di Barilla, che all’epoca lanciò con Gavino Sanna il famoso spot di Federico Fellini, con una signora al tavolo di un ristorante di lusso che chiedeva categoricamente al cameriere un piatto di rigatoni.
Fabris non c’è più da una dozzina d’anni.
Il taglio troppo culturale allontana gli appassionati
Ma una riflessione di Ettore Nicoletto, presidente e ceo di Angelini Wines & Estates, sembra invocare il suo spirito. Nicoletto sostiene che per anni le Cantine si sono sforzate di dare una veste culturale ai loro vini. Una linea magistralmente sintetizzata da Angelo Gaja, che da anni ripete ai colleghi vignaioli: «Se non conosci il Rinascimento, non puoi raccontare il tuo vino».
Questo approccio è stato prezioso. Il risultato, visto quasi quattro decenni dopo, è un paradosso: in Italia non si è mai bevuto così poco e parlato così tanto di vino. Dalla stampa generalista agli influencer, non esiste canale informativo che trascuri il vino. Eppure il consumo pro capite è meno di un terzo di quello degli anni ’60. Perché c’è così tanto interesse sul vino? Perché siamo tutti sommelier o vignaioli per passione o enotecari o wine-baristi o degustatori sui social o, più genericamente, esperti. È il mondo, per dirla con Nicoletto, a cui si rivolgono le aziende per comunicare i prodotti premium.
Il problema è che c’è anche chi non è disposto a disquisire sulla cultura del vino, ma vuole solo bere una buona bottiglia a tavola.
«Esiste una larga fascia di consumatori che vede nel vino semplicemente una “bevanda idroalcolica”», dice Nicoletto. Come coinvolgerli? «Con una comunicazione più democratica e inclusiva, ma non banale. Sul fronte del packaging questo sta già avvenendo, a partire dalle lattine che fino a qualche anno fa apparivano una sorta di blasfemia e che invece oggi alcuni di noi produttori vedono con maggiore apertura».
Bisogna rinnovare il linguaggio del vino
Più che la forma del vino, però, a cambiare dovrebbe essere la forma del linguaggio sul vino. Il confine tra consumo popolare e perdita di valore d’immagine è sottile. Come ricordano bene i produttori di Lambrusco in lattina propagandato come la nuova Coca Cola, facendo sprofondare la credibilità del vino. O come nel 2006, con Paris Hilton a lanciare il Prosecco in lattina, tra l’ira delle associazioni sulla sicurezza stradale che ricordavano come l’ereditiera fosse stata arrestata per guida in stato di ebbrezza. «Essere più “popolari” e al tempo stesso non banali non è facile. Servono competenze sia sociologiche che comunicative di cui forse il nostro comparto non è sufficientemente dotato», riflette Nicoletto. Proprio così. Cercasi sociologo, magari illuminato come Fabris.
Foto di apertura: © D. Ratushny – Unsplash
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