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Addio Giorgio Grai

1 Novembre 2019 Cesare Pillon
Addio Giorgio Grai

Salutiamo il mitico Giorgio Grai, morto il 30 ottobre a Bolzano a 89 anni. Semplicemente, uno dei migliori nasi al mondo.

Quando scompare un personaggio come Giorgio Grai, che ha avuto un ruolo così importante nel rinascimento del vino italiano, è inevitabile che chi lo ricorda sia spinto a santificarlo. Mi auguro che in questo caso la tentazione venga respinta, perché arrotondandogli gli spigoli del carattere, la sua personalità verrebbe irrimediabilmente banalizzata: uomo di grande umanità, aperto al confronto, Giorgio Grai era allo stesso tempo uno scontroso bastian contrario; sempre elegante nei modi, senza abbandonare il suo linguaggio ironicamente forbito sapeva anche essere ferocemente sferzante.

Il rapporto con Bolzano

Stroncato da un’improvvisa e devastante malattia, si è spento a 89 anni, ancor pieno di vita e di iniziative, a Bolzano, la città dov’era nato l’11 giugno 1930 e con cui aveva un rapporto tanto stretto quanto complicato: “Io mi definisco bastardo”, spiegava: “padre triestino, madre roveretana, una nonna ungherese e una ceca, una moglie bulgara, un suocero transilvano. Il mio cognome è l’italianizzazione di Krainz, cui mio padre fu costretto nel 1919. Ma Bolzano resta la mia Heimat. Io qui sono stato italiano fra i tedeschi e tedesco fra gli italiani”. Poiché era nato nell’albergo di famiglia, l’Hotel Roma di via Marconi, è sempre stato considerato figlio d’un albergatore. E lui stesso, gestendo prima l’hotel e poi l’Edy Bar di piazza Walther, sembrava confermare questa linea ereditaria.

Eclettica intraprendenza di famiglia

In realtà suo padre era un personaggio molto più complesso, pittore, scultore, marinaio, gallerista, e gli aveva trasmesso una eclettica intraprendenza che lo ha spinto a fare l’enologo, il produttore vinicolo, il ristoratore. E l’irrequietezza che aveva spinto il genitore a vagabondare da Monaco ad Atene, da Venezia a Roma, da Bolzano a Firenze, lui l’ha sfogata macinando chilometri su chilometri in auto prima come pilota di rallies, poi per recarsi dai clienti della sua attività di enologo. Sua moglie, morta prematuramente lasciandolo con due figlie giovanissime, aveva colto questa sua natura definendolo, in uno scherzoso biglietto da visita che lui ha sempre gelosamente conservato nel portafoglio: “dottore nel tuttofare, cavaliere del buongusto e ingegnere nell’arrangiarsi”.

Olfatto e sensibilità, le due più grandi doti di Giorgio Grai

Aveva il diploma di enotecnico, Giorgio Grai, ma il suo più grande talento erano l’olfatto (sapeva giudicare un vino con il naso prima ancora di portare il bicchiere alla bocca) e una sensibilità fuori del comune, che di quel vino gli permetteva di cogliere l’essenza, di comprendere l’anima. Amava soprattutto i bianchi longevi: negli anni 60, forse il momento più buio per il vino italiano, quando la sua avventura enoica era appena cominciata, seppe individuarne botti di straordinaria qualità nelle cantine sociali dell’Alto Adige. Da lui imbottigliati con il marchio Bellendorf, sono diventati leggendari. Fu dinanzi a una bottiglia di Pinot bianco da lui prodotto più tardi con il proprio nome che si inginocchio André Tchelistcheff, il grande enologo di origine russa che aveva guidato lo sviluppo del vino in California, assicurando che non ne aveva mai assaggiato uno migliore.

L’attività di consulente enologo

È però con la sua attività di consulente che Grai ha inciso più profondamente nella storia del vino italiano: basta, per testimoniarlo, la collaborazione con Ampelio Bucci che ha segnato il riscatto del Verdicchio dopo anni di deriva commerciale e ha dato il via alla sua rinascita qualitativa. Ha fornito aiuto, assistenza, contributo di idee, ausilio alle iniziative in tutte le regioni, dal Piemonte alla Puglia, dalla Toscana al Lazio, ma soprattutto in Friuli, dove ha creato e prodotto vini per Marina Danieli, che è stata sua compagna di vita e con la quale aveva fatto di Villa Dragoni un centro di cultura non solo enogastronomica.
“Ci sono vini biologici corretti secondo il protocollo”, diceva, “ma nati da vigne confinanti con un’autostrada. E dunque pieni di piombo” . Aveva inventato la definizione di vini endemici e sottolineava: “Badate bene, endemici, non autoctoni: se così fosse saremmo in Mesopotamia perché è lì che è nato tutto!”. Sarebbe bello che a ricordare Giorgio Grai restassero soprattutto questi suoi interventi polemici: aiuterebbero a evitare che anche gli intendimenti più positivi tralignino, diventino banalmente mode.

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