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Michel Rolland. La rivoluzione esplosa a Bordeaux

14 Agosto 2013 Alessandro Torcoli
Michel Rolland è diverso da come te lo aspetti. Forse è colpa di Mondovino, il film che nel 2004 l’ha ritratto come uno stregone della cantina, fissato con la micro-ossigenazione e devoto al Merlot. Una visione distorta, parrebbe. Oppure in dieci anni l’uomo è cambiato profondamente. Tanto per cominciare sostiene di utilizzare l’ossigeno in vinificazione solo nei pochi casi in cui questa pratica porta beneficio, e dice di averlo sempre consigliato con parsimonia; inoltre ritiene che il Merlot non sia un vitigno valido per tutte le stagioni e per tutti i paralleli. Lo incontriamo proprio alla Tenuta dell’Ornellaia. Qui Rolland è garante di continuità e di stile sin dagli albori. Desideriamo sondare la sua opinione in merito al tema posto al centro di VinoVip Cortina: l’innovazione, un concetto che nel vino trova applicazioni molto peculiari. - Parliamo di Bordeaux, ad esempio, dove lei è considerato uno degli enologi del Rinascimento. Quali sono stati i principali progressi degli ultimi 30 anni? «Il cambiamento è stato profondo e riguarda la mentalità degli imprenditori, i quali hanno compreso che fare vino è semplice e complicato allo stesso tempo. Così ciascuno si è impegnato per migliorare in vigna e in cantina. Forse non si è trattato neppure di vere novità. Ad esempio nel vigneto le aziende hanno cominciato a praticare l’alta densità d’impianto, basse rese, meno chimica… In precedenza tutto era troppo: portainnesti vigorosi, sovralimentazione delle piante... Abbiamo iniziato a Bordeaux, ma il movimento è diventato presto planetario. Nelle vigne inoltre è difficile ottenere raccolti omogenei, i suoli cambiano repentinamente di metro in metro. È quindi entrato nelle cantine il concetto di “parcellizzazione” per mantenere separate piccole partite di uva. Ad esempio Pontet-Canet a Pauillac, sulla rive gauche, è stato tra i primi a sostituiire tutte le vasche di vinificazione, passando da 170 a 110 ettolitri, di dimensioni ridotte, così come, sulla riva destra, ha fatto Faugères a Saint-Emilion. In questo modo si possono selezionare le uve adatte al proprio obiettivo enologico». - Durante una visita a Pape Clément ci hanno raccontato che il suo arrivo è stato dirompente. Che cosa ha combinato? «Ah… questo sì che è un esempio carino. Nel 1999 mi chiamò monsieur Bernard Magrez e mi mise nella condizione ideale per qualsiasi enologo. Mi domandò che cosa si dovesse fare per ottenere il massimo della qualità e mi disse di realizzare il tutto senza badare a spese. Innanzitutto i grappoli più sani e maturi devono essere portati subito in cantina in piccole cassette e personale esperto deve selezionare gli acini migliori. In vendemmia l’area di raccolta di uve a Pape Clément è gremita di addetti a questa mansione. Immaginate i costi. Inoltre non si devono usare pompe, né pressare violentemente gli acini, per cui abbiamo allestito un percorso di vinificazione e travaso per caduta. Tutto dev’essere eseguito con delicatezza. Lo scopo è intervenire il meno possibile. Ecco perché non utilizzo mai la micro-ossigenazione, nonostante mi abbiano fatto passare per il suo teorico! Le buone uve non ne hanno bisogno. Si usa in rari casi, per ottenere tannini più morbidi, dato che aiuta a polimerizzare le componenti fenoliche». - Possiamo considerare innovativo il movimento dei vini naturali? «Non ha a che vedere con il nuovo, piuttosto è uno stile di vita e credo che l’attenzione al biologico continuerà a crescere. Tutto sta cambiando in tal senso. Anche se spesso i viticoltori non lo sbandierano, stanno usando il 50-60% in meno di pesticidi rispetto agli Anni Ottanta. È il momento di cogliere l’opportunità, è in atto un mutamento e crescono le conoscenze sul tema. Purtroppo io non sono ancora in grado di produrre vini completi e complessi senza solfiti, ad esempio. Cioè, ne siamo tutti capaci se si tratta di poche bottiglie, ma per centinaia di ettolitri il discorso diventa complicato. Sono ancora necessari per mantenere la freschezza del vino. Però sogno di poter rinunciare in futuro. Nell’ambito del naturale, mi intriga in particolare la diffusione del cemento, le cosiddette “uova”, specie di anfore post-moderne. Si lavora su piccoli volumi e sono ottimi contenitori specialmente per i bianchi. I lieviti si muovono meglio durante la fermentazione, in modo completo e armonioso. Ho ottenuto ottimi risultati nella mia azienda La Grande Clotte nel bordolese, dove adopero in parte barrique e in parte vasche ovoidali di cemento». - Cosa pensa dei vitigni autoctoni? È un tema che segnerà il futuro? «Sono validi se generano prodotti interessanti. Bisogna osservare il mercato. Purtroppo i vini da vitigni locali minori spesso non sono apprezzati. E certe uve danno ottimi risultati solo in determinati Paesi. Pensi al Malbec, viene bene solo in Argentina, già in Cile, dove fa più freddo, non funziona, mentre è perfetto il Carmènere. E il Grenache? Dov’è realmente grande? In pochi luoghi, praticamente solo sulla fascia mediterranea dal Sud della Francia al Priorato». - Ma esistono allora i vitigni cosiddetti internazionali? «Mah, 25 anni fa in Napa Valley scoppiò la moda del Merlot, abbiamo tentato di farlo “alla grande”, ma pochi ci sono veramente riusciti. È terra da Cabernet Sauvignon. L’ubiquo Merlot è perfetto solo nella sua patria d’elezione, Pomerol, anche se devo dire che al secondo posto metto senza indugio Bolgheri». - Secondo lei quali sono le “terre promesse” del vino? «Difficile da predire, specialmente nel caso dei grandi rossi. Serve tanto tempo per capire le reali potenzialità di un luogo. La mia vera sfida è l’India, dove mancano le conoscenze, il suolo, il clima… Eppure ci lavoro dal 1994 e sembra che i vini riescano bene. Non sono convinto sulla Cina, invece, dove opero dal 2009. Il clima è terribile, in inverno sono costretti a coprire le vigne per ripararle dal freddo». - Mantenendo un orizzonte globale, in che direzione si sta evolvendo l’industria vinicola? «Noi competiamo con la birra e altre bevande. Quindi se pensiamo al bere “regolare” dobbiamo essere in grado di produrre ciò che chiede chi compra. Le statistiche ci dicono che in Europa i consumi calano, di conseguenza stiamo riducendo l’estensione del nostro vigneto, mentre nel nuovo mondo l’area vitata aumenta, in Cina a ritmi sostenuti. Mi pare che nelle nostre politiche non stiamo considerando l’industria del vino nella sua corretta dimensione. Per essere chiari: non capisco perché dobbiamo assistere alla contrazione del potenziale produttivo europeo mentre altri trovano spazi di crescita». Tempo scaduto, Michel Rolland parte per la prossima tappa. Attorno a lui nel mondo si muove un piccolo esercito di otto generali, i collaboratori più stretti, e 220 soldati, tutti francesi. Nel complesso la premiata ditta MR firma 650 etichette in 14 Paesi.

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