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Cosa serve al vino italiano per volare in Cina

13 Gennaio 2017 Luciano Ferraro

«A Vinexpo Hong Kong gli italiani bevevano i loro vini, mentre davanti agli stand francesi c’era la coda». Con una punta di amarezza e una buona dose di sogni svaniti, un grande produttore del Sud Italia riflette sul perché la Cina resti un miraggio. La risposta più semplice è quella che si può ascoltare ogni settimana a un evento enologico. I nostri ambasciatori del vino, i vignaioli, i critici e i sommelier più noti ripetono che l’insuccesso ha una spiegazione: «L’Italia non fa sistema». Ormai è una frase scontata, la ripetizione l’ha resa banale. Contiene, certo, un fondo di verità.

Non cerchiamo alibi

Chi potrebbe negare che i francesi abbiano agito prima e meglio esportando bottiglie all’ombra della Grande Muraglia? L’Italia deve recuperare decenni di letargo, è innegabile. Un letargo che ha colpito innanzitutto le istituzioni. Quando gli enti pubblici si sono risvegliati, si sono mossi in maniera disordinata. E talvolta respingente, come ha raccontato a Taormina Gourmet il capo di un gruppo vinicolo con basi in Toscana ed Emilia Romagna: «Un ente italiano ci ha chiesto più di 100mila euro per una consulenza sul mercato del vino in Cina». Il guaio è che la lamentela sull’assenza di un sistema di promozione pubblico-privato rischia di diventare un alibi.

Chi corre e chi arranca

La Cina beve 16 milioni di hl di vino l’anno, è il quinto mercato mondiale dopo Stati Uniti, Francia, Italia, Germania. I margini di crescita sono enormi, il consumo pro capite di 1,4 miliardi di cinesi è di poco superiore al litro l’anno, mentre l’Italia supera i 33 secondo le stime Oiv del 2015. I cinesi importano vino per quasi 2 miliardi di euro. L’Italia si accontenta di una fetta minuscola: 91 milioni di euro, secondo il sito “I numeri del vino”. Siamo superati, oltre che dai francesi, da australiani, cinesi e spagnoli. I primi dati del 2016 confermano: l’Italia arranca ancora, mentre gli altri corrono.

I nostri competitor

Nei primi tre mesi del 2016, riporta l’Unione italiana vini, i cileni hanno fatto entrare dai loro confini bottiglie per 1 milione di ettolitri per un valore di 557 milioni di dollari, il 47% in più del 2015. Chi ci guadagna? La Francia (256 milioni di dollari, +78%), l’Australia (+50%, per prezzi medi confermati a 8,51 dollari per litro contro i 6,20 francesi), il Cile (+35%), la Spagna (+27%). Restiamo al quinto posto, anche se siamo i primi produttori al mondo per volume. L’incremento c’è, ma fiacco. Riassume l’Uiv: “Solo +15% a valore, +7% per volumi, contro i +51% per gli australiani, +33% per i francesi e +40% per i cileni e gli spagnoli”.

L'Italia non fa sistema. Ma non è solo questo il problema

Perché gli altri hanno risultati migliori dei nostri in Cina? I francesi per il vantaggio storico, cileni e spagnoli per il prezzo («Vendono lo sfuso a 0,90 euro il litro, impensabile per noi!», si lamenta il vignaiolo che ha commentato i pochi affari italiani a Vinexpo Hong Kong). Quel che ci manca davvero è la capacità di capire cosa chieda il mercato. Quando si ascolta, come è accaduto a settembre a Milano, una vignaiola cinese nota nel mondo come Judy Leissner Chan (azienda Grace Vineyard, 200 ettari di proprietà statale, come tutti i vigneti in Cina), vacilla la tesi sulla “mancanza di sistema” come male assoluto.

Una scelta emozionale

Judy sostiene che, fatta eccezione per una minuscola minoranza, il vino straniero non viene scelto per il gusto ma per ciò che evoca l’etichetta, un insieme di storia, immagine, richiamo a uno stile di vita. Non una scelta tecnica, ma emozionale. Ma noi voliamo in Cina a spiegare la differenza tra il Brunello a Montalcino nordest e sudovest, tra il Prosecco Doc e quello Docg. Se si chiede a Judy quali siano i nomi dei vignaioli italiani più ricorrenti la risposta è sorprendente: «Gaja, perché il nome è facile da pronunciare e perché è un uomo affascinante».

Come comunicare il vino italiano in Cina

Semplicità nella divulgazione e fascino, ecco le due chiavi per comunicare con il mercato cinese. E idee nuove. Suggerisce Judy: «Usate come leve i 600 mila cinesi che vengono in Italia, organizzando da voi eventi sul vino riservati ai turisti. E fate promozione nei grandi centri commerciali cinesi, che cercano di promuovere il vino incontrando i consumatori per contrastare l’avanzata dell’e-commerce». Più iniziative e meno invettive contro il sistema che non c’è.  
Questo articolo è tratto da Civiltà del bere 06/2016. Per continuare a leggere acquista il numero nel nostro store (anche in edizione digitale) o scrivi a store@civiltadelbere.com. Buona lettura!

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