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Vigata conquista New York

26 Settembre 2012 Alessandro Torcoli
Si è molto dibattuto di Province, di quelle che potrebbero essere spazzate via da un giorno all’altro, o piano piano o forse mai. Potrebbe persino accadere che certi Comuni si trovino burocraticamente sotto l’amministrazione di odiate città limitrofe, come stava per accadere alla Fucecchio di Indro Montanelli, in provincia di Firenze, che ha rischiato di essere assoggetta a Pisa: sarebbe stato un colpo al cuore dei concittadini del grande maestro e, difatti, il sindaco ha subito rifiutato l’avances della Torre pendente che cercava di annettere territori confinanti pur di salvare il proprio Ente provinciale. Ma questi smottamenti amministrativi non sarebbero un male per il Paese, né per il settore del vino, che di provincialismo soffre invece moltissimo. Sarebbe utile, infatti, guardare al futuro in un’ottica lucidamente internazionale, posto che ormai la competizione è mondiale e il nostro interlocutore è americano o ucraino e sempre meno biellese o brindisino. Eppure qualcuno continua a incentrare il dibattito su falsi problemi di bottega o di campanile e troppe aziende comunicano come se dovessero convincere delle proprie virtù più il sindaco o il ristoratore vicino, piuttosto che il grande mercato del mondo. Vi sono molti esempi. Siamo provinciali, in primis, quando andiamo a New York con portaborse, compagne e tutto lo staff dell’Assessorato per presentare i vini del Consorzio del Rosso di Vigata. L’evento del grande Rosso risulterà un flop, ma è sufficiente aver trasvolato l’Oceano affinché la Gazzetta locale titoli: “Vigata ha conquistato la Grande Mela”. È un grande risultato, ancorché falso. Se questo è un classico della promozione italiana che nuoce al commercio e all’immagine, vi sono pratiche di provincialismo più sottile e insidioso: gli uffici stampa dei Consorzi o delle aziende ci scrivono sempre più spesso che il tal vino è stato elogiato dal Financial Times o dal New York Times ecc. Per fortuna, e per merito dei grandi ambasciatori del vino italiano nel mondo, sono decenni che la stampa e la critica internazionale si sono accorte della qualità delle nostre etichette. La prima volta in vetta alla Top100 di  Wine Spectator è una notizia, la seconda meno, la terza no. E in ogni caso, essere primi in quella pur importante lista non equivale a essere incoronati “miglior vino del mondo” (come, all’epoca, titolò il Corriere della Sera in prima pagina) non foss’altro perché si tratta di una classifica dei soli prodotti distribuiti negli States e in quantità apprezzabile, per cui il campo è relativo e nazionale, non riguarda “il globo”. Terzo caso di mentalità profondamente provinciale: risulta difficile (quando non impossibile) organizzare eventi corali, con produzioni di eccellenza, in una regione italiana, per invitarvi buyers e opinion leaders da diversi Paesi, perché il Comune promotore dovrà affrontare gli ostacoli dei Municipi e delle Province limitrofe, ciascuna delle quali pretenderà d’essere più titolata a ospitare una fiera delle eccellenze e al limite sopporterà con malcelato fastidio che se ne occupi il vicino. Ecco perché, alla fine, l’Italia resta il Paese delle sagre, ma le “fiere del vino”, realizzate con criteri professionali, raramente decollano. Il vero miracolo italiano è il Vinitaly, che a Verona richiama l’Italia intera a esporre, e il mondo ad assistere, ma che deve lottare ogni anno con pesanti critiche e qualche colpo basso. Infine, si stanno per concludere le vendemmie e si ripete il ritornello dei giudizi in corso d’opera. Si produrrà meno vino. È evidente e prevedibile sia per l’andamento climatico sia per gli effetti della politica agricola comunitaria e degli espianti dei vigneti. Eppure ogni estate leggiamo le anticipazioni e chiunque presenta le sue statistiche. A che servono realmente? Certamente a ottenere un servizio sui giornali. Ma a chi giovano? Alla popolazione, in fin dei conti, arriva sempre il medesimo messaggio, da anni: minore quantità, ma ottima qualità. Non si ricorda, se non nell’anno orribile del 2002, un giudizio negativo sulla raccolta. E anche in quel caso, il risultato mediatico fu controproducente e pose il marchio d’infamia su un millesimo che, in molti casi, diede apprezzabili risultati. Le medie, si sa, sono pericolose. Beninteso, sin qui abbiamo scritto di provincialismo nell’accezione negativa, di chiusura mentale e visione a breve termine, ma esiste pur sempre un risvolto positivo nella vita e nell’ottica della provincia, specialmente in un Paese che deve la sua storia a Comuni antichi e potenti, più che alla regìa di uno Stato unitario. Ben venga quindi la varietà, la ricchezza di vini e di uve, e anche un pizzico di presunzione per autoconvincerci di non essere secondi a nessuno. Purché ogni due mesi qualcuno non ci scriva che “abbiamo battuto i francesi”. Avanti così, produrremo forse più bollicine di loro (il Prosecco ha già superato lo Champagne in quantità), vinceremo più premi rispetto ai bordolesi e alle aste i nostri miti spunteranno prezzi maggiori rispetto ai loro (per questo, onestamente, ci vorrà tempo…), ma alla fine ci accorgeremo che la California o lo Stato di Washington, la Nuova Zelanda o, chissà, la Cina avranno sorpassato sia noi sia la Francia. Ma questo non ci consolerà. dal numero Settembre-Ottobre 2012 di Civiltà del bere

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