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In cucina comanda Dio

2 Ottobre 2010 Chef Kumalé
Come riti, precetti e tabù religiosi condizionano anche il nostro modo di avvicinarci ai piatti e alle bevande - La globalizzazione ci mette a confronto con le tradizioni delle diverse culture - I divieti da rispettare e le abitudini da tollerare - Viaggio nelle regole alimentari dei cinque continenti Come per le diverse lingue, ogni tradizione gastronomica possiede i suoi vocaboli specifici, rappresentati dai prodotti e dagli ingredienti tipici. Si tratta di elementi basilari di un patrimonio culturale organizzati secondo regole di grammatica, come le ricette, di una sintassi data dall’ordine delle vivande servite nei menu e infine di una retorica rappresentata dai comportamenti conviviali. Ogni differente cucina contiene ed esprime quindi la cultura di chi la pratica, è depositaria delle tradizioni e dell’identità di gruppo, costituisce pertanto un elemento imprescindibile per conoscere gli altri. Viaggiando nei diversi continenti è fondamentale tenere presente questo assioma, ben sintetizzato dalla celebre frase “dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei”, pronunciata dal gastronomo e pensatore francese Jean Anthelme Brillat-Savarin (1755-1826) che l’ha inclusa nel suo trattato La fisiologia del gusto (1825). I diversi patrimoni gastronomici non differiscono solo per i vari giacimenti; è scontato dirlo, ma occorre ricordare che i molteplici climi e ambienti del pianeta hanno generato specie animali e vegetali molto diverse tra loro. In alcuni luoghi la natura è stata particolarmente generosa, offrendo, come nel caso del nostro Paese, condizioni ottimali per lo sviluppo dell’agricoltura, della pesca e dell’allevamento; ma se pensiamo a zone arido-desertiche come il Sahel o le steppe dell’Asia centrale è evidente che, in termini di biodiversità, sia il grande chef sia la casalinga hanno di che lamentarsi per allestire un desco d’eccellenza. Alcune civiltà interessate dallo sviluppo di grandi imperi e domini hanno dato vita a un patrimonio gastronomico ricco e variegato, portando davvero all’eccellenza le espressioni dei vari territori. È successo in Italia, in Francia e in Spagna, rimanendo in Europa, ma anche in Cina, Giappone, Thailandia e India se parliamo di Oriente, in Messico e Perù se consideriamo l’America latina e in poche altre civiltà, in modo così significativo. E poiché gli uomini, da che mondo è mondo, si sono sempre scambiati di tutto e continueranno a farlo, nonostante i goffi tentativi di arginare la libera circolazione di prodotti, sapori e saperi (vedi le leggi anti kebab), bisogna sottolineare che le più grandi culture gastronomiche sono diventate tali poiché hanno saputo attingere e rielaborare i propri patrimoni integrando i migliori apporti offerti dagli incontri e dagli scambi con le altre cucine. Basti pensare all’introduzione nel Vecchio Mondo dei doni importati dalle Americhe da Cristoforo Colombo (mais, cacao, pomodori e peperoncini), solo per citare un esempio universalmente noto. Ma la generosità della natura, lo sviluppo di grandi civiltà culinarie, oltre agli scambi commerciali e culturali tra i popoli, da soli non sono sufficienti per spiegare la grande diversità esistente tra i molteplici foodscapes, i paesaggi del cibo, come li ha definiti l’antropologa genovese Alessandra Guigoni. Regole e prescrizioni da sapere Se nei Paesi del Mediterraneo (e non solo) la religione ebraica, quella islamica e la cristiano-ortodossa raccolgono nei loro testi sacri, la Torah, il Corano e la Bibbia, un numero considerevole di precetti alimentari religiosi in grado di condizionare in modo determinante i diversi comportamenti dietetici (food habits) è bene ricordare che anche le religioni e le filosofie orientali, come l’induismo, il buddismo, il sikhismo o il giainismo, raccolgono una cospicua quantità di regole alle quali i fedeli si devono attenere. Si è molto discusso e indagato sul significato dei precetti alimentari religiosi, che rappresentano un insieme di prescrizioni e divieti in grado di vincolare enormemente gli stili di comportamento a tavola e di consumo. Molti studi hanno sottolineato come la maggior parte delle direttive assumano un senso all’interno del contesto storico e socio-ambientale nel quale si sono generate; mentre altre avrebbero una stretta relazione con aspetti igienico-sanitari o salutistici. Il divieto di macellare e mangiare la mucca in India, ad esempio, assume una rilevanza se pensiamo ai prodotti latteo-caseari che se ne ricavano e al lavoro che l’animale svolge da sempre nei campi, in una società prettamente agricola. La proibizione nei Paesi islamici di mangiare con le dita della mano sinistra rappresentava una norma di pulizia importante nell’antichità, quando per evitare contaminazioni con il cibo si prescriveva l’uso della mano sinistra limitatamente a impieghi meno nobili. Mentre oggi ci interroghiamo sul futuro del mondo e ci chiediamo se ci saranno cibo e acqua sufficienti per tutti – questo tra l’altro sarà il tema dell’Expo di Milano del 2015, come ci ricorda il titolo “Nutrire il pianeta” – sarebbe interessante conoscere quanto alcune norme religiose di altre culture abbiano espresso questa preoccupazione fin dai tempi più remoti, indicandone possibili soluzioni. No a certi tipi e tagli di carne Il divieto di nutrirsi di carni animali, il vegetarismo e la non-violenza come scelta di vita hanno contribuito notevolmente alla conservazione delle risorse alimentari del pianeta. Il significato della macellazione rituale, che attribuisce all’uomo un fondamentale potere divino, quello di sacrificare la vita di un essere vivente, è accompagnato anche da pratiche culinarie volte a consumare ogni parte commestibile dell’animale: dalle interiora ai tagli meno pregiati, in modo da ottimizzare i consumi. La prescrizione assume in questo caso un valore importante, se pensiamo che nelle società avanzate, come la nostra, solo il 30% di un bovino finisce sui banchi della macelleria, poiché cuciniamo prevalentemente sottofiletto per bistecche, mentre i nostri nonni non detestavano neppure le trippe! Vino e bevande alcoliche: proibizioni preventive Delle molte norme alimentari, come il divieto di mangiare carne di porco nell’islam (poiché considerato animale immondo) o quello di abbinare la carne con il latte e i suoi derivati della tradizione ebraica, la maggior parte riguarda l’universo cibo, ma alcune anche il mondo delle bevande. Mentre nella tradizione cristiana il vino raffigura simbolicamente il sangue di Cristo ed entra nella pratica liturgica, nei Paesi islamici e in molte religioni orientali il vino e le bevande alcoliche rappresentano un tabù assoluto e non solo perché la vite non cresce nel deserto saudita. Per il bere, come per il cibo, la proibizione religiosa assume un valore importante di freno all’agire umano. L’uomo si deve poter confrontare con i propri limiti e sapere che esistono dei confini, rappresentati dalla volontà divina, al di là dei quali non è consentito spingersi, se non mettendo in conto di commettere un peccato. Questo in estrema sintesi è il significato del precetto. Il divieto di bere bevande alcoliche rappresenta un misura preventiva, per disincentivare i problemi comportamentali derivanti da una possibile tendenza all’abuso. Sotto l’effetto dell’alcol, secondo alcune religioni, l’uomo si allontana dalla retta via e può commettere atti impropri oltre che impuri. Il latte: purifica Ma oltre ai divieti nelle bevande esistono anche le prescrizioni. Pochi sanno, ad esempio, che il taglio al latte del tè nella tradizione inglese ha origini remote che ci riportano all’epoca del Raj, quando dall’India sotto il dominio britannico si diffuse anche in Europa l’abitudine di allungare il tè con il nettare della mucca sacra. Privata dei suoi richiami religiosi, questa pratica in uso nei Paesi anglosassoni ha per gli induisti un significato molto importante. I sacerdoti (bramini) devono purificare i loro alimenti aggiungendo un prodotto di origine vaccina: burro (ghee), formaggio (paneer), yogurt (dahi) o semplice latte. Un tè senza un taglio al latte non è infatti idoneo per dissetare un religioso induista, mentre per noi può trasformarsi semplicemente in una nuova ricetta per apprezzare una bevanda come il tè. Il caffè: stimola Analogamente il caffè, chiamato in origine nei Paesi islamici “vino nero del Profeta”, rappresentava per i mistici dell’islam (sufi) una bevanda stimolante (per la presenza della caffeina) e molto apprezzata poiché aiutava gli Imam a guidare la preghiera fin dalle prime ore del giorno, ma anche per rendere sopportabili i morsi della fame prima e dopo la rottura del digiuno, nel sacro mese di Ramadan. Sciolto il divieto del consumo dell’oro nero in tazzina da parte della chiesa cristiana, che ne aveva interdetto l’uso poiché rappresentava la bevanda ufficiale degli infedeli, il caffè è diventato con l’espresso il simbolo del made in Italy, lasciandosi alle spalle tradizioni antichissime, usi, costumi e cerimonie che sopravvivono nelle culture native in Africa e nel mondo arabo, in mondi paralleli al nostro, che nel nuovo millennio abbiamo finalmente l’opportunità di comprendere. La conoscenza delle diverse precettistiche religiose può rappresentare nell’esportazione dei nostri prodotti un vincolo importante da tenere in considerazione ma anche un’opportunità per arrivare su nuovi mercati con piatti non solo idonei, ma anche molto appetibili.

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