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Le imprese del vino hanno i piedi d’argilla?

4 Marzo 2016 Alessandro Torcoli
Forse non è mai stato così difficile trovare un equilibrio. Non ci riferiamo solo a quello intrinseco del vino, tra la spinta di una gradazione alcolica crescente e una freschezza calante, tra maturazioni zuccherine e fenoliche. Quello è il meno. La qualità, ne siamo convinti, è in costante miglioramento e l’offerta sempre più varia. L’equilibrio più difficile da trovare è quello imprenditorialestrategico, tra il richiamo ammaliante del mercato, che (come ammonisce Alberto Antonini nell'ultimo numero di Civiltà del bere) sinora è stato fin esageratemene dominus, e l’espressione autentica del territorio, quella tipicità alla quale abbiamo dedicato non a caso la monografia di questo volume. Prepariamoci alla terza rivoluzione delle Doc, esorta il manager Emilio Pedron, che porterà all’esaltazione del binomio vitigno-territorio.

Spiegare l'arte al mercato

Dobbiamo imparare a spiegare la nostra arte ai consumatori, suggerisce Antonini, mentre il Nord Europa, destinazione sempre più importante, richiama ingenti quantità di vino on demand, cioè esattamente come vuole lui: ora va il Ripasso, domani il biologico… i monopoli con i loro tender lasciano davvero poco margine al dialogo e alle spiegazioni. O così o nulla, e mettiamoci nei panni di chi, in fin dei conti, conduce un’impresa, seppure in questo meraviglioso mondo. Alla fine dell’anno i conti devono tornare.

Fine wines, biodinamica, vino vegano...

È davvero complicato. E quella dicotomia, palese ormai, tra vini d’autore, fine wines e prodotti commerciali, sta gettando molti viticoltori un po’ nel panico. Anche perché in mezzo ci sono le pulsioni freudiane del vino vero, naturale, biodinamico, vegano, ecc. Per fortuna, c’è spazio per tutti. La segmentazione di questo settore è impressionante: ci sono tantissime nicchie, ma molte sono così minuscole, i consumatori di riferimento così irraggiungibili, nonostante la capillarità dei social media, che vendere anche poche bottiglie, in fondo, non è più così semplice.

Le Cantine sono imprese del vino

Piccole, medie o grandi, le Cantine sono aziende. Ma rispetto ad altre situazioni, il retaggio contadino sembra frenare un reale sviluppo imprenditoriale. E non si discute l’assioma che il grande vino nasce in vigna. Ma dall’impianto del vigneto, alla vinificazione fino alla vendita, l’imprenditore deve organizzare le sue risorse al meglio, per raggiungere l’obiettivo, cioè sopravvivere, quindi guadagnare. Forse l’abitudine a utilizzare stampelle (leggi: finanziamenti pubblici più politici che strategici) non ha aiutato alcune realtà a raggiungere la solidità oggi richiesta dal mercato globale. Se guardi dentro una cantina, anche di media dimensione (questo è il problema), trovi attrezzature meravigliose e botti da favola. Ma poca programmazione, finanza, logistica, organizzazione commerciale, cioè i pilastri su cui si basa l’imprenditoria. Per qualcuno questi son discorsi da “industriali del vino”. Persiste infatti il pregiudizio ideologico contro questo termine. Parliamo allora di impresa del vino, perché fino a prova contraria tutti sono imprenditori, anche chi produce mille bottiglie, a meno che non lo faccia per hobby. Anche chi coltiva solo le viti e vende le uve, l’agricoltore, è pur sempre imprenditore. Ecco, questa imprenditoria vitivinicola, se la guardi da vicino, appare un po’ fragile.

Il pericolo: testa d'oro, piedi d'argilla

Eppure l'immagine dei nostri vini è in grande spolvero. Destiamo ammirazione e procuriamo piacere agli edonisti di tutto il mondo, sempre sul podio per quantità e per valore, siamo giganti del vino. Se però non rafforziamo tutti i comparti del nostro settore, ci ritroveremo come la statua gigantesca sognata da Nabucodonosor: testa d’oro, petto d’argento, ventre di bronzo, gambe di ferro e piedi d’argilla.

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