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Il sommelier rischia una crisi d’identità

4 Dicembre 2020 Alessandro Torcoli
Il sommelier rischia una crisi d’identità

In queste settimane ci siamo interrogati sul futuro delle enoteche, ma vale la pena di affrontare un altro ruolo a rischio, vittima di una confusione innanzitutto terminologica, quello del sommelier.

Da figura professionale ben definita, responsabile del vino al ristorante, quella del sommelier è divenuta nel tempo piuttosto un’etichetta indefinita cucita addosso all’esperto di vino, sia che si occupi professionalmente della materia sia che possieda una generica patente di conoscenza, acquisita attraverso corsi erogati da varie associazioni, in primis Ais, ma anche Fisar, Fis, Aspi… ove la “s” sta per sommelier, appunto. Nell’accezione più ampia, direi popolare, è l’esperto di vino tout court: l’amico sommelier è quello che “se n’intende”, come l’affascinante Michele che sapeva riconoscere una marca di whisky “dal colore chiaro e gusto pulito” in uno spot pubblicitario degli anni Ottanta.

Il boom dei corsi da sommelier negli anni Duemila

Dopo un boom negli anni Duemila, quando le associazioni arruolavano decine di migliaia di iscritti ai corsi e diplomavano frotte di sommelier, la corsa al titolo è rallentata. Anche se oggi è meno cool, certamente la qualifica rimane interessante e, forse, ancora l’unica riferita sinteticamente all’esperto di vino. Se in Italia a ridimensionare la leggenda hanno contribuito le esilaranti parodie di Antonio Albanese e del suo sommelier che rotea calici con aria mistica per concludere la sua degustazione tecnica con un laconico “buono!”, a livello globale un film come “Somm”, che racconta le erculee fatiche dei canditati all’esame da Master Sommelier, negli ultimi anni ha contribuito a rialimentare il mito.

Si prospetta una crisi d’identità?

Mito tristemente compromesso negli ultimi mesi dalle accuse di sessismo e di molestie circolate proprio nell’ambito della Corte dei Master Sommeliers (da non confondere con i Masters of Wine, tutt’altro esame e tutt’altra qualifica) che hanno portato a dimissioni delle figure compromesse e a gettare un’ombra inedita sulla figura del sommelier. In ogni modo, una crisi d’identità potrebbe essere dietro la porta per noi sommelier. Parlo anche per me, infatti, dato che ho ottenuto il diploma Ais nell’anno 2000.

Che cosa fa veramente un sommelier?

In questo periodo, come ben riepilogato alcune settimane fa sulla nostra newsletter “Internazionale” da Anita Franzon, molte testate internazionali si sono poste i medesimi interrogativi: dove sono finiti i sommelier? Che fine faranno se solo negli Usa da marzo hanno chiuso 16 mila ristoranti? E che cosa fa veramente un sommelier?
Forse, la definizione sommelier, pur essendo ancora molto evocativa, si sta svuotando di significato per “eccesso semantico”, spaziando dalla semplicista accezione di “cameriere del vino”, esperto di abbinamenti e selezionatore di vini a quella di “guru” in materia, passando per wine ambassador, wine writer, blogger, wine consulant… e anche in questo caso, con infinite possibilità, dalla creazione di una carta dei vini alla collaborazione nel produrre il vino stesso.

Manca una definizione per gli esperti di vino non sommelier

Inoltre, essendo in Italia un sinonimo quasi univoco di “esperto in materia”, rende persino difficile qualificare diversamente chi segue strade alternative a quelle dei corsi “da sommelier” per acquisire competenze. Resta senza “nome” persino chi acquisisce l’ambìto diploma internazionale del Wset (Wine & Spirti Education Trust), superando prove – onestamente – assai più complesse, che richiedono anni di studi e assaggi.
Chi è in possesso di questo diploma non è un sommelier, ma rischia addirittura di non vedersi riconosciuto (in Italia) lo status che merita, semplicemente perché non esiste una parola che lo definisca. Si deve necessariamente ricorrere a perifrasi come “esperto di vino” o meglio all’inglese “wine expert”, che suona (chissà perché) più professionale, come tutti i mestieri e i ruoli che oggi, anglicizzati, guadagnano in prestigio, vedi Ceo al posto di Amministratore delegato o Export manager al posto di responsabile mercati esteri.

Una possibile soluzione

In definitiva, potrebbe essere utile, nonostante le difficoltà della ristorazione che speriamo di rivedere presto splendere, tornare a limitare l’uso della qualifica di sommelier a chi esercita il mestiere: un esperto che gestisce la cantina del ristorante o di altro locale pubblico ed è responsabile delle vendite alla clientela, che guiderà con competenza sia sul prodotto sia sul miglior abbinamento o servizio possibile per esaltarne le caratteristiche.

La dote fondamentale del sommelier è saper comunicare

È un ruolo decisivo, un professionista in grado di moltiplicare i profitti del ristorante oltre che di esaltare il lavoro dei produttori di vini. I migliori sommelier sono alleati preziosi di ristoratori, vitivinicoltori e appassionati di vino. Talvolta il ruolo è stato vissuto in maniera elitaria, da sacerdoti di riti misterici che – al contrario – hanno allontanato i consumatori, facendoli sentire esclusi dalla casta. È invece vero quanto si è detto in questi anni circa l’ineludibile dote, requisito necessario del sommelier: la capacità di comunicare. Il che significa trasferire una passione e un sapere, cioè l’opposto dell’elitarismo e dell’esclusione.

E gli altri? La questione è aperta

Resta il problema della definizione da dare a chi esercita un altro mestiere, pur essendo esperto di vino, ma né enologo né sommelier, semplicemente conoscitore della materia, ma non vale neppure l’altra definizione, sempre esterofila benché francese, di connoisseur. Potrebbe andar bene l’italiano “intenditore”? Forse no, perché suona un po’ come quel Michele di cui sopra, quello che se n’intende. Insomma, è una questione terminologica molto complicata. Ma a questo punto la responsabilità non è certo del sommelier professionista.

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