Il piccolo Paese ha codificato un suo aggettivo, Belgian, per definire il proprio modo di esprimersi nella produzione birraria. Lo scenario è assai variegato, ma ora si preferiscono ricette più luppolate, di facile beva.
Il Belgio è una meta imprescindibile per la sua storia e la sua cultura birraria. In questo piccolo Paese che non arriva nemmeno alla somma di Piemonte e Liguria si celano alcune delle tipologie più interessanti dell’intero panorama mondiale. Il Pajottenland, attorno a Bruxelles, è la terra dei complessi e ancestrali Lambic, birre a fermentazione spontanea che sono un patrimonio culturale dell’umanità intera.
Le due Fiandre della birra
Le Fiandre occidentali custodiscono la tradizione delle Vlaams rood bruin. Maturate in grandi botti di rovere (quelle del birrificio Rodenbach arrivano a 150 anni di età e 650 ettolitri di dimensioni) hanno un inconfondibile tocco acetico. Nelle Fiandre orientali troviamo invece le Oud Bruin. Sono birre a fermentazione mista che in alcuni casi non fanno passaggio in legno, ma utilizzano uno starter di lieviti e batteri, che segna la birra con un netto sentore lattico.
Dalle Saison dell’Hainaut alle famose monastiche
Nell’Hainaut si possono assaggiare le tradizionali Saison, di grande secchezza (con attenuazioni estreme) e quindi decisamente rinfrescanti, nonostante i gradi alcolici non siano sempre molto bassi. Per non parlare delle birre monastiche e segnatamente quelle trappiste autentiche. In Belgio ci sono sei birrifici gestiti dai monaci della stretta osservanza e sono senza dubbio tra i più importanti e noti di tutto il panorama mondiale: Achel, Chimay, Rochefort, Orval, Westmalle, Westvleteren.
Dolcezza in primo piano
Uno scenario quindi di grandissima varietà e complessità (l’elenco poteva essere molto più lungo). Negli ultimi decenni del secolo scorso, però, si è affermato soprattutto un filone, collegabile sicuramente ai lieviti specifici di questo territorio. Molti ceppi di origine belga hanno infatti un’impronta netta e segnano l’olfatto delle birre con note di frutta (banana, pera, pesca), fiori (rosa, viola, gelsomino) e spezie (pepe, chiodi di garofano). Si tratta di composti aromatici generati in fermentazione e sono tipici di molte birre belghe. Talmente particolari da spingere molti birrai a sottolineare questo carattere creando birre importanti, alcoliche, tendenti al dolce, con un elevato residuo zuccherino. Birre che soltanto un’elevatissima gasatura e una temperatura di servizio polare (anche queste, ahimè, piuttosto diffuse) possono rendere gradevoli al sorso, riuscendo a mascherare – almeno parzialmente – la dolcezza di fondo.

Moderne rivisitazioni dello stile Belgian
La tendenza a produrre birre decisamente aromatiche e sostanzialmente morbide si è talmente radicata da codificare, ovunque nel mondo, l’aggettivo Belgian per definire uno stile con queste caratteristiche. Quando in etichetta si legge Belgian pale ale, o Belgian strong golden ale, o Belgian dark ale, e così via, si può essere quasi sicuri che nel bicchiere avremo una birra di spiccata personalità olfattiva (soprattutto esteri fruttati e note fenoliche) e sostanziale dolcezza di fondo (data sia dal residuo zuccherino sia dall’alcol, normalmente elevato). Birre che sembrano continuare a piacere molto ai sudditi di re Filippo, che per molti appassionati (compreso chi scrive) sono state assolutamente illuminanti nel percorso di scoperta della biodiversità birraria, ma che negli ultimi decenni stavano rischiando di diventare decisamente demodé.
Foto di apertura G. Batistini
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