In Italia i rosati – bollicine a parte – sono snobbati. Non è raro imbattersi in carte dei vini con centinaia di referenze di ogni provenienza, ma quasi prive di rosé. Un fenomeno poco comprensibile, che mortifica una tipologia di vini variegata e fascinosa. Nel nostro Paese se ne produce un’ampia gamma che va dai Chiaretti gardesani ai Cerasuoli aprutini, sino ai rosati del Salento, per non parlare delle diverse tecniche enologiche impiegate e influenzate dalle tradizioni locali. Perché allora non valorizzarli? Se è vero che il consumatore a volte non li capisce, sono soprattutto ristoratori e produttori che non ci credono e non li comunicano. E pensare che alcuni piatti sarebbero perfetti con i rosati: certe pizze, il pollame, il coniglio, i pesci grassi o in guazzetto, i salumi. Prodotti unici, eclettici, che – se ben vinificati – possono regalare piacevoli sensazioni. Se gli spumanti in rosa da qualche anno stanno vivendo una stagione relativamente felice, i fermi sono ben lungi dall’aver guadagnato una giusta posizione di mercato, limitandosi a ottenere consensi quasi solo nei rispettivi territori di origine. A ostacolare l’affermazione di questa tipologia c’è anche un vecchio e obsoleto pregiudizio: la massa considera ancora questi vini come una via di mezzo alla riuscita tra bianchi e rossi, quando non un vero e proprio taglio.
LE TRE VIE EN ROSE: PRESSATI, MACERATI O SALASSATI - Una definizione precisa di vino rosato non esiste, nel senso che sotto il nome di rosé si annoverano prodotti molto diversi tra loro. Si può passare così da nettari caratterizzati da deboli tonalità ramate ai più intensi chiaretti (tipici quelli del Garda), dai caldi ed eterei rosati del Salento ai “quasi” rossi Cerasuoli abruzzesi. Quello che va sottolineato è che in Italia, parlando di vini fermi, è espressamente vietato mischiare i bianchi con i rossi per ottenere la voluta tonalità. La tecnica di produzione prevede una breve macerazione di uve a bacca rossa. Tale operazione può essere eseguita seguendo due metodiche. La prima riconduce alla vinificazione in bianco, con la differenza che la pressatura delle uve è condotta in modo più lento, permettendo una fase maggiore di contatto tra la parte liquida del mosto e le bucce: i grappoli senza essere pigiati e diraspati sono torchiati o pressati in modo lento e graduale, il mosto acquista così una tenue colorazione. La seconda metodica si avvicina invece a quella della vinificazione in rosso. L’uva solitamente pigiata e diraspata è posta a macerare, insieme alle proprie bucce, per un periodo piuttosto breve, 12-24 ore circa. Al termine, il mosto-vino viene separato e si completa la fermentazione con le modalità della vinificazione in bianco. Con ambedue le tecniche le fermentazioni vengono condotte a basse temperature e le operazioni successive seguono quelle di preparazione di un vino bianco. Nella gran parte dei casi lo svolgimento della malolattica è inibito, così da esaltare la fragranza di questa tipologia di vini, e i tempi di affinamento sono molto brevi e assai di rado in legno. Anche la longevità di questi prodotti, sempre con le dovute eccezioni, è raramente lunga. Esiste poi una terza via per l’ottenimento dei rosé, spesso intrapresa nelle regioni del Centrosud, che consiste nel salasso: si preleva, durante le prime ore di macerazione, un po’ di mosto dal tino in cui fermenta il vino rosso più importante e si fanno proseguire le due fermentazioni separatamente; con questa pratica, se non impiegata come ripiego, si ha potenzialmente la possibilità di migliorare la qualità sia del rosso (che risulta più concentrato) sia del rosato, in quanto ottenuto dal miglior mosto della cantina.
LA STORIA SIAMO NOI. GARDA, ABRUZZO E SALENTO - Parlando di rosati fermi, tre sono in sostanza le aree della nostra Penisola ove vi è una relativa tradizione produttiva: il Garda Occidentale con il Chiaretto (ma anche a Oriente con il Bardolino Chiaretto), l’Abruzzo con il Cerasuolo, il Salento con il Salice Salentino Rosato e l’Alezio. A questi distretti si possono aggiungere, marginalmente, l’Alto Adige con il Lagrein Kretzer e la Calabria con il Cirò Rosato. Oltre naturalmente a una miriade di etichette sparse a macchia di leopardo lungo tutto lo Stivale. In questa sede ci concentreremo sui due bacini più consistenti da un punto di vista quantitativo, ma anche dagli standard di qualità media più interessanti: quello aprutino e quello pugliese. Mentre nel Salento e ancor più nel Garda i vini declinati in rosa hanno sempre avuto una propria dignità, almeno nella tradizione storica se non nella pratica quotidiana, in Abruzzo (fatte le debite eccezioni) il Cerasuolo era più un vino di derivazione – se non di ripiego – della versione rossa. Non uno scarto di lavorazione sia chiaro, ma certo un prodotto secondario rispetto al Montepulciano. Tanto è vero che sino al 2009 esisteva un unico Disciplinare per il Montepulciano e per il Cerasuolo; solo con la vendemmia 2010 le due denominazioni si sono coraggiosamente scisse, esistendo oggi il Montepulciano d’Abruzzo e il Cerasuolo d’Abruzzo, con la necessità di definire in via preventiva quali vigne destinare a un vino e quali all’altro. In ogni caso oggi l’enologia, anche aprutina, è molto cambiata e si è notevolmente evoluta, e trovare dei Cerasuolo di grande levatura, persino di buona longevità e magari affinati in legno, non è più così raro.
DAL 2010 SONO AUTONOMO, MI CHIAMO CERASUOLO - Prima di accennare a qualche esempio concreto, vale la pena di citare alcuni passi del nuovo Disciplinare, riconosciuto con DM del 5/10/2010 e successive modifiche. L’articolo 9, Legame con l’ambiente geografico, così recita: “Dopo oltre 40 anni in cui il Cerasuolo si è affermato come tipologia della Doc Montepulciano d’Abruzzo, i produttori hanno ritenuto opportuno dare a questo vino una propria specifica identità richiedendo il riconoscimento della Doc Cerasuolo d’Abruzzo giunta con la vendemmia 2010. Comunque, oltre ai fattori storici che legano strettamente il prodotto al territorio, molto importante è anche l’incidenza dei fattori umani. Il vino Cerasuolo d’Abruzzo deve essere ottenuto dalle uve provenienti da vigneti che nell’ambito aziendale risultano composti dal vitigno Montepulciano almeno all’85%. Forme di allevamento, sesti d’impianto e sistemi di potatura: la forma di allevamento generalmente usata nella zona è la pergola abruzzese anche se da diversi anni si vanno sempre più espandendo le forme a spalliera semplice o doppia. Le rese massime di uva non possono superare i 140 quintali per ettaro per il base e i 120 per il Superiore. Pratiche relative all’elaborazione dei vini: sono quelle tradizionali ed ormai consolidate per questo vino ossia una vinificazione in bianco oppure una breve macerazione a freddo per 8-12 ore, cui segue un periodo più o meno breve di affinamento. Nella tipologia Superiore non è consentito l’arricchimento mentre il vino può essere elevato in recipienti di legno per consentire allo stesso di esprimere al meglio le proprie peculiarità strutturali ed olfattive. Il particolare equilibrio che il vitigno Montepulciano ha trovato nell’area interessata associata a una particolare tecnica di vinificazione, in bianco ovvero breve macerazione, consentono di ottenere vini le cui peculiarità si estrinsecano nella Doc Cerasuolo d’Abruzzo. La denominazione comprende due tipologie, il base e il Superiore. Il Cerasuolo d’Abruzzo è un vino dal buon tenore alcolico, spiccata acidità, con profilo organolettico tipico e distintivo (note di frutta rossa, ciliegia, ecc.) che difficilmente riescono a esprimersi nella loro complessità in altri areali di coltivazione”.
GLI ABRUZZESI, TALENTO DAVVERO SPONTANEO - Fra le etichette meritevoli di menzione ricordiamo qui, è d’obbligo, il Cerasuolo d’Abruzzo di Valentini (Loreto Aprutino, Pescara), un produttore che rappresenta un inno al territorio, alla tradizione, al vino aprutino. Una Cantina che consente di compiere un tuffo nel passato, proiettando verso il futuro, questo grazie all’uso esclusivo della pergola abruzzese, fermentazioni con lieviti indigeni, nessuna correzione, né filtrazione, né stabilizzazione, botti di legno di castagno secolari. Per dei vini che o si amano (e i più, li adorano) o si odiano; mai eguali a se stessi, soggetti come sono alle annate, ma sempre in linea con uno stile omogeneo, della casa ma spontaneo al contempo. Per esempio nell’edizione 2008 è stato giudicato fra i migliori rosati di italiani di tutti i tempi, di complessità e longevità uniche. Un altro grande rosato aprutino è il Cerasuolo d’Abruzzo Piè delle Vigne di Luigi Cataldi Madonna (Ofena, L’Aquila), un potente cru, che esce un anno dopo la vendemmia, capace di coniugare struttura, calore alcolico, freschezza fruttata ed eleganza. Altre aziende da menzionare per i loro più che interessanti rosati sono: Emidio Pepe (Torano Nuovo, Teramo), produttore dedito all’agricoltura naturale e biodinamica, famoso per la longevità dei suoi vini, tutti a listino dal 1964, e per pratiche di vigna e cantina quasi arcaiche e massimamente rispettose della materia prima (per dirne una: le uve bianche sono ancora pigiate con i piedi); Masciarelli (San Martino sulla Marrucina, Chieti), simbolo con il suo Villa Gemma del rinascimento vitivinicolo della regione; Praesidium (Prezza, L’Aquila), piccola ma identitaria cantina dell’aquilano, posta nella Valle Peligna, produttrice di vini di assoluta personalità.
NEL SALENTO L'ANTICHISSIMA CULLA - Il Salento è da sempre terra vocata alla produzione di vini rosati; siano essi posti sotto l’ombrello di qualche Doc, come la Salice Salentino o l’Alezio, sia come Igt. Questo accade per delle condizioni pedoclimatiche favorevoli, o, talvolta per smaltire i tanti volumi di vino prodotto che necessitavano, per ampliare il target di consumatori, anche una declinazione in rosa, sia per il tipo di cucina, caratterizzata da primi ricchi, impeccabili con questa tipologia di vini, sia anche e soprattutto per il prestarsi di due grandi vitigni, Negroamaro in primis e in subordine Malvasia nera, alla vinificazione rosé. Più di recente anche il Primitivo, nel tarantino e nella zona di Gioia del Colle, ha dato ottima prova di sé prodotto in rosa, grazie al carattere fruttato e morbido del vitigno. Peraltro non solo leccese, brindisino e tarantino sono terra di rosati; anche l’alta Puglia, tra barese e foggiano, soprattutto nella zona di San Severo, offre – vinificando praticamente in rosso il Bombino Nero (che di fatto ha colorazione cerasuola naturale) – degli interessanti nettari, che però raramente raggiungono la pienezza, la complessità e l’eleganza dei loro omologhi del Salento. Infine, in provincia di Barletta-Andria-Trani, oltre al Bombino Nero – presente anche in questo distretto – ha dato buona prova di sé anche il Nero di Troia, dimostratosi capace di dar vita non solo ai rossi imperiosi e irruenti per cui è maggiormente noto.
C'ERA UNA VOLTA LA PRIMA ROSA D'ITALIA - Venendo ai produttori top della regione, nel solco della tipologia qui trattata (ma non solo), va citato in primis Leone de Castris (Salice Salentino, Lecce), una Cantina con alle spalle 300 vendemmie essendo stata fondata nel 1665, già due secoli fa esportatrice dei suoi nettari in Francia, Germania e Stati Uniti, prima azienda in Italia – vendemmia 1943 - a imbottigliare un vino rosato, l’ormai mitico Five Roses, da uve Negroamaro in prevalenza con un saldo di Malvasia nera, attualmente prodotto in due versioni, una base e una dell’Anniversario. Ancora oggi vino-paradigma dell’enologia salentina in rosa, dotato oltretutto di un’interessante propensione a evolvere nel tempo. Altre due Case vinicole che hanno dato tanto alla viticoltura salentina e in particolare alla tipologia in parola sono: Rosa del Golfo (Alezio, Lecce) e Calò Michele e Figli (Tuglie, Lecce). Il primo realizza un rosato di struttura, elevato in parte in tonneau, il Vigna Mazzì, e il classico quanto delizioso Rosa del Golfo, entrambi da Negroamaro in purezza. Il secondo si è fatto notare per l’Alezio Rosato Mjère, nettare dai profumi d’Oriente. Un vignaiolo salentino meno conosciuto è Alessandro Bonsegna, dal 1993 alla guida della Cantina fondata dal babbo Primo. I 12 ettari di vigne, alcune delle quali quasi sul mare, sono allevati a spalliera e ad alberello e gestite con un ridottissimo impatto ambientale. Produce una chicca dall’eccellente rapporto qualità/prezzo: il Danze della Contessa Rosato, Nardò Doc, base Negroamaro con Malvasia nera, fresco e sapido. Al di fuori della penisola salentina, citiamo qui una Cantina di specifico interesse: Guttarolo (Gioia del Colle, Bari), piccola realtà emergente dedita all’agricoltura naturale, oggi in regime biologico ma in conversione biodinamica, e a pratiche enologiche rispettose di uva e terroir: uso di soli lieviti indigeni, nessuna filtrazione né chiarifica, no solforosa durante gli affinamenti. Paradigmatico del genere è il suo Amphora Primitivo Rosato.