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Cavalieri e draghi

11 Marzo 2011 Civiltà del bere
Il 2011 sarà il primo anno del dopocrisi? Oppure sarà il quarto del nuovo corso, qualche livello sotto quota? Ci salverà l’export? Oppure, dovremo pensare a vendere meglio in Italia? Non abbiamo la sfera di cristallo, ci hanno detto autorevoli voci dell’imprenditoria vinicola, e noi l’abbiamo scritto il mese scorso. Hanno ragione. Eppure le loro risposte erano davvero concrete: chi ha creato una rete di collaboratori su un mercato sempre più complesso, e fondamentale, come gli Stati Uniti d’America, chi ha aperto filiali commerciali per presidiare la nostra piazza storica, quella tedesca. Fatti salvi i Cavalieri del lavoro con visioni lungimiranti, nel complesso sembra che gli imprenditori vitivinicoli navighino a vista. O anche peggio, pare procedano appesantiti, lentamente, rivolti all’ultimo metro percorso, come pescatori che decidono d’essere ottimisti o pessimisti a seconda della quantità di pesciolini catturati allo strascico. E li capiamo, pur spronandoli sempre a una visione strategica. Li capiamo perché, come ha detto il severo Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi all’ultimo Forex, il congresso degli operatori finanziari, il nostro Paese è fermo al palo da 15 anni. In pratica, se sovrapponiamo quelle considerazioni generali sul nostro piccolo enomondo, ci rendiamo conto – perdonateci la metafora azzardata – che il nostro viagra commerciale è stato l’export, in particolare l’euro debole in passato ci ha fatto alzare un po’ troppo la cresta. E le sovvenzioni, quelle, se mai, hanno contribuito ad alimentare un circolo di assistiti pronti per la rottamazione. Risultato: i nostri pescatori da strascico, viste le reti leggere e i pericoli dietro gli scogli, nella maggior parte dei casi, fuor di metafora, hanno pensato bene di svendere le giacenze di magazzino. E questo è il più triste capitolo della nostra enologia di qualità. Ormai non c’è Denominazione di eccellenza, da Barolo a Montalcino, che non lamenti pericolose precipitazioni dei prezzi. Non è certo una prospettiva lungimirante da Cavalieri. Tornando invece ai Draghi, dice il nostro timoniere finanziario che è necessario intervenire sulla pressione fiscale che in Italia supera di tre punti quella della media degli altri Paesi europei e penalizza le imprese che non riescono a uscire dalla loro condizione di essere “troppo piccole”. Un sistema fiscale con meno evasione e aliquote più basse, secondo il governatore, «favorirebbe la decisione di aumentare la dimensione dell’impresa». Un taglio delle tasse è necessario anche per i contribuenti e, a questo scopo, secondo Draghi si dovrebbero utilizzare le maggiori entrate provenienti dalla lotta all’evasione fiscale. Ma, come ripetiamo quasi ogni mese sino alla nausea, anche il ben più influente Governatore ha commentato: «a frenare lo sviluppo in Italia contribuiscono inoltre gli alti livelli di burocrazia, soprattutto per le imprese, tra i più onerosi del mondo». Ha concluso Draghi: «l’Italia dispone di grandi risorse, ha molte aziende, una grande capacità imprenditoriale, la sua gente è laboriosa e parsimoniosa. Si tratta di liberare lo spirito degli imprenditori e degli individui da molti vincoli». Applaudiamo, sottoscriviamo queste parole. Aggiungiamo solo che purtroppo lo spirito italiano continua a portarci a vedere le cose dal nostro campanile e molte azioni commerciali, su scala planetaria, risultano polvere, perché manca una massa critica. E i tentativi di aggregazione in atto da parte di Enti o Fiere stentano a decollare, perché l’imprenditore italiano sembra prediligere le piccole avanguardie di stampo medievale rispetto agli eserciti. Anche i Cavalieri, talvolta, scelgono questa strada. E non si preoccupano dei Draghi. Eppure lo scenario planetario continua a suggerirci di avanzare compatti, numerosi, cosa che consentirebbe di minimizzare i rischi. Pensiamo ad esempio agli Usa, dove lo scacchiere di distributori e importatori è sempre più complesso e a rimetterci sono i produttori, usati talvolta come pedine. È un sogno immaginare una coalizione forte dei più importanti esportatori italiani? Guardiamo a Est. Crescono le speranze proporzionalmente alle delusioni. Paradossale? No, i risultati non arrivano ma gli investimenti aumentano. E questo, tutto sommato è un fatto positivo. È lungimirante. Ci avevano detto un anno fa: «La Cina sembra l’America del dopoguerra...». Pochi mesi dopo correggono: «Macché... è molto peggio! Il problema in Asia comincia dalla lettura dell’etichetta». E circola un aneddoto: «Due cuochi di una quotata società di catering stavano preparando il pranzo per l’annuncio di fidanzamento di William e Kate, cioè i più famosi fidanzati d’Occidente. Sono cinesi e stanno cucinando con professionalità. A un tratto, uno domanda all’altro: scusa, ma per chi cuciniamo? Mah, mi hanno detto che sono due tizi importanti». Poniamo pure che la parabola sia falsa, è però molto chiara. Avere delle relazioni commerciali in un senso (dalla Cina prendiamo molto in termini di produzione e lavoro) non è detto che generi subito un bel flusso nell’altro senso. Non finché i nostri Cavalieri, e i nostri Principi, non saranno rispettati anche in Cina. Alti i prezzi, alta la fronte e la bandiera, dobbiamo costruire il mito, la leggenda, non sbronzare i burocrati di Pechino o di Mosca tanto per svuotare la cantina.

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