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Antonio Calò: la viticoltura. Ascesa degli italici e più caratterizzazione

27 Settembre 2011 Civiltà del bere
Antonio Calò, presidente dell’Accademia italiana della Vite e del Vino, è anche libero docente in Viticoltura e direttore dell’Istituto sperimentale di viticoltura del Cra di Conegliano (Treviso). Ricopre altre cariche sempre in ambito viticolo ed è considerato uno dei maggiori esperti del settore. Ebbene sì; devo insistere su un concetto che ho espresso già 10 anni fa. Se il nostro vino nasce dalla composizione dei nostri vigneti, va sottolineato che i cambiamenti della base viticola sono naturalmente lenti. Basta pensare che il vigneto ha una vita di circa 30 anni e che, di conseguenza, in una situazione di equilibrio delle superfici vitate, ogni anno al massimo può cambiare (ma non sempre cambia) il 3,3% dello scenario qualitativo e di posizione della base produttiva. Ho creduto e credo tutt’ora che un’attenta analisi sul nostro divenire non può che concretarsi con la lettura dei dati delle produzioni vivaistiche: quantità e diverse varietà che annualmente vengono messe a dimora nelle province e nel totale del Paese. Quale direttore dell’Isv e relativo Servizio controllo vivai, mi sono battuto per queste verifiche e con due progetti (per niente onerosi!), finanziati dal ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali, abbiamo pubblicato fino al 2008 due volumi con statistiche, dati reali, proiezioni, indicazioni del vigneto Italia. Lavori che non possono essere abbandonati, anche se non so quale attenzione abbiano avuto, mentre molti parlano, propongono, giudicano e pensano di prendere decisioni. Su quale base?

Si punterà sulla tipicità

Abbiamo tutti chiaro che oggi i due terzi della viticoltura che darà i vini del 2020 è già stata piantata? E che dalle tendenze che si esprimono anno per anno vengono le vere indicazioni sul futuro; se cambia e come cambia l’atteggiamento dei viticoltori in relazione alle zone privilegiate e alle varietà preferite? Zone e varietà che, fino a prova contraria, restano i pilastri su cui si basa la qualità e tipicità dei vini. Dell’interpretazione dell’enologo dirò alla fine. E qui siamo al dunque. Non a caso ho parlato di tipicità: concetto a volte vago, ma che ora si va dimostrando, in base a precisi studi di cui ho dato notizia anche su questi fogli, scientificamente valido; tipicità che implica una scelta concettuale e strategica se vogliamo dare una connotazione originale al nostro vino. Perché, altrimenti, esiste il concetto di una produzione, certamente qualitativa, ma legata a progressi che, se pur validi, rischiano di generalizzare il vino. Non possiamo parlare di questo proiettandoci solo al 2020, dobbiamo piuttosto prendere atto delle recenti scelte in base a quanto detto più sopra e rinviare il discorso su quanto attiene a un divenire più lontano del quale vi sarà il tempo per discutere!

Esaltare le zone di nascita

Ora osserviamo brevissimamente, ma con attenzione, le tendenze del vigneto Italia sulla base della realtà e dei dati in possesso. Nel 2005 (quindi con la metà del vigneto che sarà presente nel 2020) si constatava che 12 vitigni occupavano circa il 50% degli impianti, l’ultimo dei quali con un’incidenza dell’1,7%; il che significa che tutti gli altri erano sotto questa soglia. I primi cinque rossi erano: Sangiovese, Montepulciano, Merlot, Barbera e Cabernet Sauvignon per un totale degli impianti del 28% circa a livello nazionale. I primi cinque bianchi erano: Chardonnay, Pinot grigio, Prosecco, Trebbiano toscano e Sauvignon bianco  con il 16% circa. Di conseguenza 12 vitigni occupavano circa il 44% degli impianti e ciò muoveva, rispetto al trentennio precedente, la variabilità del vigneto, quando con soli 11 vitigni era coperto oltre il 63% degli impianti! Ma quali sono i messaggi più significativi, osservando anche le varietà meno utilizzate e le diverse aree del Paese? Appare subito la tendenza verso maggiore qualificazione e caratterizzazione, perché ogni regione si proietta con individualità diversa come può essere ben letto nella pubblicazione Evoluzione del Vigneto Italia, II volume di A. Calò, D. Gaeta, C. Zagaglia, M. Antoniazzi, Tipse, settembre 2008. I macronumeri parlano nel senso sopra specificato. Altra nota. Agli insistiti discorsi relativi a molti luoghi comuni, anche enfatizzati dai mass media, e in particolare alla dilagante moda dei cosiddetti “vitigni autoctoni” (minori), il viticoltore risponde con ponderazione, riservandoli esclusivamente a produzioni davvero di nicchia, con numeri in assoluto davvero limitati. Diverso il discorso sui più reputati “vitigni italici” tradizionali, che iniziano a emergere per meglio caratterizzare le loro zone di elezione. È il caso dei Primitivo, Negroamaro, Nero d’Avola, Refosco dal peduncolo rosso, Montepulciano, Aglianico che si affiancano ai vari Nebbiolo, Barbera, Dolcetto, Corvine, Lambruschi, Cannonau… (fra i rossi) e Prosecco, Garganega, Verdicchio, Vermentino, Fiano, Falangina che si aggiungono ai Graci, Ribolla, Tocai friulano, Verdea, Trebbiano abruzzese, Catarratti, Grillo… (fra i bianchi). A questi si uniscono, però in maniera meno straripante rispetto al passato, i vitigni internazionali. Pare proprio che, dopo le prime impostazioni dovute alle iniziative del ministro Castagnola nel 1870 con l’istituzione del Comitato nazionale ampelografico, dopo le scelte degli ampelografi della fine dell’Ottocento e del Novecento, dopo i lavori di varie Commissioni regionali sempre della fine dell’Ottocento, dopo la crisi fillosserica e la ripresa post-bellica, dopo la riduzione in coltura di vitigni solo produttivi (emblematico il caso del Trebbiano toscano) dopo i vari studi e le indicazioni fornite dalla ricerca, la tendenza della piattaforma ampelografica sia chiaramente orientata verso un futuro prossimo che riesca a interpretare la potenzialità dei nostri straordinari ambienti e genotipi, per dare sostanza finalmente a una “via italiana al vino”, così come è stata definita dalla nostra Accademia.

Vedremo sempre più eleganza

Ci sono voluti oltre cento anni di sforzi e voglio sottolinearlo: il 2020 vedrà accresciuta questa tendenza. Desideriamo impostare altri cambiamenti? Per chiudere, tornando al vino e all’opera dell’enologo nell’interpretare la base viticola, è utile osservare come si stiano affermando alcune tendenze e una in particolare: la ricerca di vini più snelli, leggeri, eleganti che devono acquisire in dignità ed essere ammessi fra quelli di pregio, categoria che parrebbe solo riservata ai pur incantevoli vini robusti e alcolici. Ciò corrisponde molto di più alle esigenze della fisiologia umana, come sempre nei secoli è stato percepito e come dimostra la frustrazione che si intuisce nei vecchi e antichi autori incapaci di conservarli. Oggi, viceversa, e visto che Pasteur è nato, sappiamo intervenire e interpretare meglio anche questa via. I successi del Prosecco e dei rosati devono far riflettere.

Cosa aveva detto nel Duemila

«...Dovremo aspettarci uno spostamento sempre maggiore verso aree definite da denominazioni e l’incentivo consisterà nel dare loro visibilità, credibilità e sviluppo. La tendenza sarà la produzione crescente di vini rossi, ma anche un netto miglioramento della base per i bianchi con la tendenza a una maggiore qualificazione dei vini bianchi italiani. Si assisterà a un maggiore uso di vitigni di qualità emergenti: Fiano, Verdicchio, Riesling italico fra i bianchi e Aglianico, Refosco, Nero d’Avola, Negroamaro e Primitivo fra i rossi».  

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