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Angelo Gaja commenta l’Italia del vino. L’intervista

26 Aprile 2017 Cesare Pillon
Su scala mondiale ci sarà forse qualcun altro, ma in Italia c’è un solo personaggio che riesce a far parlare di sé e della sua azienda sia i giornali cartacei che le testate on-line tutte le volte che vuole, senza pagare un euro di pubblicità ma facendosi anzi ringraziare: è un produttore di vino, Angelo Gaja.

Alla scoperta del Gaja-pensiero

Il metodo che ha inventato è molto semplice: scrive un breve testo in cui esprime la sua opinione su un problema sempre diverso, ma sempre inerente al vino, e lo spedisce via email a tutti i giornalisti che conosce (li conosce tutti, non soltanto quelli del settore). E poiché i suoi testi sono scritti con ironica schiettezza e le sue tesi non sono mai banali, i giornalisti che ricevono quei messaggi ne riferiscono volentieri i passi più importanti; qualcuno, anzi, li pubblica tali e quali come fossero articoli di un collaboratore prestigioso. È un metodo che ha un solo difetto: per essere pubblicabili i testi devono essere brevi e legati all’attualità, e per evitare eccessi di presenzialismo vanno intervallati nel tempo, cosicché dell'Angelo Gaja-pensiero si conoscono soltanto frammenti determinati dal caso. E allora perché non fargli qualche domanda un po’ più impegnativa? L’intervista è cominciata così.

Le sfide del Nuovo Mondo

Quale ritiene sia la sfida più importante che il vino italiano deve affrontare oggi? «Mentre i produttori italiani sono i soli a costruire domanda sui mercati stranieri per Nero d’Avola, Primitivo, Aglianico, Montepulciano, Ribolla, Arneis e qualche centinaio di altre varietà indigene, i produttori del Nuovo Mondo, unitamente ad altri europei e con la benedizione della Francia, contribuiscono tutti assieme a creare domanda e assuefazione al gusto di Cabernet, Merlot, Chardonnay e poche altre varietà. Con le quali Stati Uniti, Cile, Australia, Argentina, Nuova Zelanda, Sud Africa, Israele, Canada, hanno imparato prima a educare e soddisfare il mercato interno e poi ad aggredire i mercati esteri. In Cina, Paese destinato a scalare le prime posizioni tra quelli produttori di vino, i vigneti piantati a Cabernet raggiungono già ora il 50%. Ne deriva che per l’Italia del vino l’export non può essere una comoda passeggiata».

Il made in Italy nei ristoranti del mondo

Ma il vino italiano ha la possibilità di farcela? E in che modo? «L’Italia gode già di un primato, riconosciuto e consolidato, nella produzione di “food-wines”, cioè di vini da bere abbinati al cibo (non deve stupire, ci sono dei produttori che ancora non lo sanno!). Le Cantine dovranno dedicare maggiori energie per introdurre i vini italiani non soltanto nei ristoranti che all’estero propongono cucina italiana, ma anche in quelli di etnici (propri dei Paesi stranieri). E far così diventare la ristorazione un ottimo strumento per la divulgazione del vino made in Italy. La giovane generazione dei nostri produttori che si sta affacciando parla finalmente inglese: la lingua veicolare la cui conoscenza consente di meglio comprendere i mercati esteri e adeguarne l’offerta».

Individuare la chiave del successo

Infatti in questo momento il vino italiano sta ottenendo un indubbio successo nel mondo. Lei ch’è stato uno dei primi a capire che il futuro del nostro vino era nell’esportazione è il più adatto a vedere al di là: è tutto oro quel che luccica? La competitività nei confronti degli altri Paesi produttori è effettiva o è determinata in prevalenza dal fattore prezzo? «Ogni regione italiana ha storia e cultura diverse. Vale anche per il vino. Potrebbe essere utile cercare di capire quale sia la chiave del successo sui mercati esteri di ogni regione. Per il Veneto, sicuramente il Prosecco».

In Toscana c'è ancora spazio per gli internazionali

Prosegue Gaja: «Per i vini fermi, la Toscana in prospettiva futura avrà la strada dell’export più disponibile e favorevole perché ha saputo coniugare la realizzazione dei vini della tradizione con quelli ottenuti dal Cabernet e dal Merlot, purché di elevata qualità, dal momento che dedicarsi alla produzione di quelli banali non avrebbe avuto senso. La vulgata nostrana li vorrebbe vedere banditi dai nostri territori, in favore dell’esclusività delle varietà indigene: è una visione che premia l’orgoglio nazionale ma è povera di strategia di marketing».

La svolta virtuosa dell'approccio naturale

Fanno molto discutere, in questo momento storico, temi come la sostenibilità, l’approccio biologico e biodinamico al vigneto, il vino naturale. Qual è la sua opinione in proposito? «Onore e gloria al “naturale”! Nonostante in volume rappresenti un’inezia, rispetto alla totalità del vino prodotto, ha costretto gli altri produttori a dichiararsi: biologico, buono, giusto, pulito, onesto, sostenibile, sano, libero, vegano (e siamo solo agli inizi!), inducendo una svolta virtuosa, che si ispira alla riduzione della chimica nel vigneto e a una manipolazione del vino meno invasiva».

Il respiro del mare che aiuta la vigna

A proposito di manipolazioni: le variazioni climatiche sempre più evidenti possono provocare, secondo lei, mutamenti della natura stessa del vino, imponendo per esempio la dealcolazione? Oppure lo spostamento delle vigne verso nord o verso altitudini maggiori? «L’insuperabile Giacomo Tachis diceva che “il vino ama il respiro del mare”. L’Italia ha 8 mila chilometri di coste, nessun altro Paese mediterraneo ha così tanto mare attorno a mitigare il clima dei propri vigneti. Come affrontare gli effetti delle variazioni climatiche? C’è la possibilità, oggi, di collaborare con ricercatori, botanici, geologi, uomini di scienza e di mestiere al fine di acquisire esperienze e competenze nuove, che permettano di individuare rimedi di sicura efficacia».  
L'intervista prosegue su Civiltà del bere 2/2017. Per continuare a leggere acquista il numero sul nostro store (anche in formato digitale) o scrivi a store@civiltadelbere.com

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