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Anche i grandi scrittori inciampano sul vino

22 Ottobre 2021 Luciano Ferraro
Anche i grandi scrittori inciampano sul vino

Quando si conosce bene una materia, il vino ad esempio, e si legge quello che ne scrivono alcuni autori non specializzati, cadono molti miti.

Ecco dove nasce lo scoramento del nostro collaboratore, e caporedattore centrale del Corriere della Sera, Luciano Ferraro, quando – non volendo credere alle accuse di mancata genuinità di un autore da lui amatissimo, Emmanuel Carrère – si è trovato a dover dare ragione ai detrattori di fronte alla superficialità con cui scrive di vino.

Un grande scrittore può permettersi certi errori?

Non volevo credere alle critiche negative che avevo letto su Yoga, l’ultimo libro di Emmanuel Carrère. È stato lo scrittore che mi ha incantato con Il Regno, la sua “investigazione” sulla storia del Cristianesimo. Forse anche perché l’avevo letto davanti al mare di Patmos, all’ombra del monastero dell’Apocalisse, dove fu esiliato Giovanni, il più giovane e il più longevo degli apostoli. Anche occupandosi di teologia, Carrère racconta sempre se stesso, i suoi amori, i suoi amici, i suoi tormenti.

La querelle con la ex moglie

Poco prima di mandare alle stampe l’ultimo romanzo, Carrère si era separato dalla giornalista Hélène Devynck che gli aveva imposto, con i suoi avvocati, di farla sparire dal libro. Richiesta rifiutata. Ne è nata una polemica finita sui giornali di tutto il mondo, con l’ex moglie che ha messo in dubbio la verità sia sulle cure psichiatriche dell’ex marito contro la depressione, sia sulla convalescenza nell’isola di Leros, per aiutare i profughi dall’Afghanistan, sbattendo contro il muro di un dramma autentico. Tutto ciò ha influenzato i critici letterari, diventati dubbiosi sull’operazione verità nei libri di Carrère.

Superata la metà, si approda in Grecia

Ho creduto a Le Monde che lo ha difeso, parlando di “favolosa fluidità” della prosa. Anche perché – pensavo – un libro che è stato passato al setaccio da agguerriti studi legali, e non solo dagli editor, sarebbe stato privo di ogni errore. Fino a quando, superata la prima metà di Yoga, Carrère racconta di essere stato dimesso dalla clinica in cui lo avevano trattato con l’elettroshock e di aver cercato redenzione e riscatto in Grecia. A Leros conosce Frederica Mojave, storica americana che ha mollato tutto per aprire una scuola per i piccoli migranti.

Entra in scena il vino

Una sera, Frederica, una donna dai modi ruvidi, chiede a Emmanuel se gli va di bere qualcosa assieme: comprano una bottiglia di vino bianco, delle olive, un sacchetto di pistacchi. “Vuotata la bottiglia, andiamo a cena in una taverna del porto”.

Un attacco violento e banale

Ora che il vino è entrato nel romanzo, la cena si trasforma per Carrère in una requisitoria banale contro il vino stesso. Nel romanzo, fa “spolmonare” una urlante Frederica “sulle schifezze chimiche con cui oggi vengono tagliati tutti i vini, anche i più quotati, sul male che ha fatto ai grandi Bordeaux la dittatura dell’enologo americano Robert Parker”. Ammette che beve per stordirsi. “Poco importa la qualità, qualsiasi cosa contenga alcol va bene, quello che conta è sbronzarsi. Alla russa”. E poi spiega, con foga: “L’enologia mi disgusta e aborro le persone che, come dicono loro, degustano il vino, lo fanno ruotare a lungo in bicchieri giganteschi e poi gli trovano delle note legnose o un retrogusto di buco del culo”. La serata finisce con la terza bottiglia svuotata.

Lo scollamento dalla realtà dell’élite

Perché un grande scrittore, per di più francese, pensa che il vino sia pieno di schifezze e ne beve tre bottiglie a sera? Perché prende in giro chi degusta, con lo stesso stile della famosa gag di Antonio Albanese, senza però riuscire a far sorridere? Forse perché appartiene a quel mondo agiato che in Italia trascorre più tempo tra Capalbio e Camogli che in città, in case con il frigo sempre pieno e sempre pronte a raccogliere amici che parlano (e praticano) di meditazione e yoga, dell’arte del riuso dei mobili (con architetti dalle parcelle stellari), dei cibi salutari e politicamente corretti, ma recapitati a domicilio dai moderni schiavi in bici. A questa élite piace pensare che al di fuori del proprio cerchio magico tutto è impuro, un insieme di schifezze.

Errori e sciatterie che un grande scrittore non può permettersi

Liberi di pensarlo. Ma serve un po’ di accuratezza per sostenere anche la tesi più traballante. Come è possibile che lo stuolo di controllori del romanzo di Carrère non si sia accorto che Robert Parker non è un enologo? È un avvocato, diventato critico enologico ed editore. Un errore che, assieme ad altri inciampi del romanzo, mi ha impedito di essere ammaliato come sempre dalla “favolosa fluidità” di Carrère.

Foto di apertura: © Myriams Fotos

Questo articolo fa parte de La Terza Pagina, newsletter a cura di Alessandro Torcoli dedicata alla cultura del vino. Ogni settimana ospita opinioni di uno o più esperti su temi di ampio respiro o d’attualità. L’obiettivo è stimolare il confronto: anche tu puoi prendere parte al dibattito, scrivendoci le tue riflessioni qui+
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