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Alberto Antonini, un duello tra Britney Spears e John Coltrane

18 Marzo 2016 Alessandro Torcoli

Intervista ad Alberto Antonini: bisogna saper scegliere tra Britney Spears e John Coltrane

Agronomo ed enologo, consulente di fama internazionale, Alberto Antonini, pur muovendosi su scala globale, ha idee molto chiare sull’espressione dell’autenticità. Lo abbiamo intervistato a Firenze, alla presentazione del nuovo corso di Dievole, tenuta del Chianti Classico che di recente ha cambiato proprietà (e rotta). - Dunque, quali sono secondo lei gli elementi chiave della tipicità? Primo, non bisogna fare i vini per il mercato, ma è importante spiegare ai consumatori ciò che si è e ciò che si crea. Purtroppo in questi 40 anni il mercato è diventato, da luogo ideale dove confluiscono le merci, il padrone che decide cosa e come produrre. E’ drammatico. Secondo, devi credere in ciò che hai. Spesso mi trovo di fronte a persone che non hanno fiducia nelle potenzialità del proprio territorio. Ad esempio, quando arrivai in Argentina nel 1995 nessuno pensava di poter realizzare vini importanti col Malbec, perché di questo vitigno a Bordeaux si diceva che fosse una varietà minore, e che per puntare in alto bisognasse produrre Cabernet e Merlot. Io mi innamorai delle vecchie vigne di Malbec, ma trovai subito un muro di incomprensione. E’ un problema soprattutto culturale. D’altronde la Toscana quarant’anni fa non puntava seriamente sul Sangiovese, lo sforzo era invece teso verso il modello francese. Lavoro in Armenia, nella zona dell’Areni (Zorah Wines). Lo considero uno dei posti migliori del mondo per la viticoltura e laggiù produciamo vini da vitigni antichi, da piante ultracentenarie. Ma è triste vedere che altri, in questa terra meravigliosa, abbiano seguito il consiglio di piantare le uve internazionali. Ciò è drammatico nel 2015. E questo perché il mercato ti impone le strade da seguire. Chi fa il vino per il mercato è come Britney Spears. Entra in uno studio di registrazione e 40 professionisti le dicono come cantare per vender 120 milioni di dischi. Invece John Coltrane… entrava in sala e soffiava nel suo sassofono ciò che sentiva nell’animo. Nella storia sopravvive lui, cioè le persone che hanno fatto cose autentiche. - Di chi è la responsabilità di questa standardizzazione? Abbiamo subito una auto-colonizzazione bordolese. Perché non si può nemmeno dire che siano venuti loro a conquistarci. Questa ha avuto anche aspetti positivi, perché ci ha trasmesso una cultura della qualità che ci mancava. L’errore è stato quello di non applicare questi insegnamenti alla nostra specificità, come invece stiamo giustamente facendo ora. - Quali sono le aree più promettenti, in grado di esprimere la propria diversità ? Il Cile ad esempio, nelle aree meno note come Cauquenes e Itata, dove trovi viti di 150 anni, Cinsault, Grenache, Muscadel, allevate in secano, senza irrigazione. Solo che i cileni dovrebbero amare più il Cile e meno gli Stati Uniti. Invece si è imposto il Cile “bordolese”, che è una copia. E le copie sono meno interessanti. Inoltre suggerisco di guardare all’Uruguay. Sto lavorando a Garzòn, dove si pianta su magnifiche alterazioni di granito. Direi che tutti dobbiamo sforzarci per far capire che il mondo del vino è molto più diversificato e stimolante di quello che si vede oggi. C’è un enorme potenziale davanti a noi! Milioni di storie da raccontare, vini incredibili. E siamo solo all’inizio. - L’Italia dovrebbe essere un giacimento straordinario. L’Italia ha una geologia straordinaria, ci sono suoli di tutti i tipi, in situazioni molto diverse… il problema è crederci. In Sicilia, ad esempio, ho visto calcari da sogno, che sto studiando con il geologo cileno Pedro Parra. Ma anche nel nostro Paese… è solo l’inizio.

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