Il linguaggio vinicolo ha talvolta derive poetiche. Ecco un esempio significativo: quando un vino non è ricavato da uvaggio, ma dai grappoli d’una sola cultivar, si dice che le sue uve sono vinificate in purezza. E purezza è una parola di profonda suggestione. Ha un significato fisico-chimico molto concreto, vuol dire assenza di elementi estranei (che proprio per questo si chiamano impurità), ma ha pure una valenza spirituale quando esprime l’astensione da azioni e pensieri peccaminosi, con specifica allusione ai peccati della carne. Insomma, se il dolce stil novo aveva angelicato la donna, la parola purezza ha intensità espressiva sufficiente per angelicare il vino. E questo spiega perché la stampa scandalistica non ha avuto bisogno di calcare la mano per far passare i produttori che hanno aggiunto Merlot al Brunello di Montalcino, angelico Sangiovese in purezza, alla stregua di stupratori d’una vergine. Difficile suggerire un rimedio: chi se la sente di passare dal fascinoso lirismo del “vino in purezza” allo squallido realismo del “vino monovarietale”?