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Come promuovere il nostro immenso patrimonio vinicolo

22 Aprile 2017 Alessandro Torcoli
Uno degli argomenti di conversazione preferiti degli opinion leader, chiamati alle corti imbandite degli imprenditori, riguarda la cronica inettitudine italiana a fare sistema per la valorizzazione di un incommensurabile patrimonio viticolo. Tra i luoghi comuni che emergono dalla conversazione il più citato, come antipasto, si riferisce alla Francia, la quale sarebbe inarrivabile nella capacità di vendere anche fumo (e non solo gli indiscutibili capolavori). A seguire, i commensali si animano sull’assenza di un efficiente sistema di promozione del made in Italy. Al dessert qualcuno chiosa sull’evidenza che “non sappiamo fare sistema”. I luoghi comuni, per definizione, non sono menzogne, ma verità ormai così trite da perdere di senso, con il pericoloso effetto collaterale che ci allontaniamo dalla verità e ci culliamo in un lamento improduttivo.

Noi non siamo la Francia

La Francia, tanto per cominciare, è un Paese profondamente diverso. Non è solo questione di essere più o meno bravi, ma di saper valorizzare la propria differenza, ancorandola a un’identità che, eventualmente, andrebbe pure (ri)costruita. In questo senso, per portare qualche esempio, il Barolo gode ormai di una personalità forte, Chianti e Amarone stanno ridisegnando con efficacia il proprio profilo, il Collio – un tempo glorioso – sembra soffrire di un’immagine sbiadita che richiederebbe un ripensamento. Colleghiamo il primo al secondo luogo comune: non sappiamo fare sistema, perché siamo “capre”, come direbbe quel tale, in tema di marketing. Come se fosse facile gestire una nazione relativamente recente e fondata su particolarismi men che regionali, e ciascuno con il proprio vitigno autoctono.

La nostra forza è la nostra debolezza. Lo studio SDA Bocconi

Uno spunto di riflessione per fare sistema è giunto dallo studio del Wine Management Lab della SDA Bocconi. La scuola di direzione aziendale ha incrociato e analizzato le risposte di 170 operatori esteri sul posizionamento competitivo del nostro vino con quelle di 500 aziende italiane, alle quali sono stati rivolti quesiti su assortimento, brand, mercati, distribuzione e comunicazione. È emersa la perniciosa ambivalenza della varietà delle proposte vinicole: forza e debolezza. Tanta (bio)diversità disorienta sia i consumatori internazionali, che a mala pena sanno posizionare Venezia sulla mappa, sia il trade, che non sa bene come comunicare le tante differenze. Eppure le parole varietà e biodiversità, spesso legate a unicità, sono citate dal 100% dei professionisti del commercio quale leva del racconto accompagnato alla vendita. Sembra un controsenso: è morto il re, viva il re!

Fare sistema partendo dalla (bio)diversità

Dalla stessa indagine emerge che i produttori fondano le proprie strategie, oltre che sulla costruzione del brand, sui valori del territorio e sulle uve tradizionali. No way, come dicono gli americani, e come conclude il Wine Lab: “La varietà autentica fonda il vantaggio competitivo del modello italiano (può essere un’opportunità e un valore anche sui mercati esteri)”. Inoltre: “La varietà è espressione della ricchezza dei territori culturali italiani (ben rappresentati dalle denominazioni), connubio di caratteristiche pedoclimatiche e uve autoctone, ma anche di storia e riti sociali, di gastronomia, arte e cultura: elementi simbolici per alimentare il posizionamento internazionale”.

Perché non basta una Sopexa italiana

Resta però un grosso nodo da sciogliere: quale ente universale si prenderà carico delle identità particolari? È una questione annosa, forse irrisolvibile se presa di petto. Non basterebbe una Sopexa italiana, ente francese di promozione che nei salotti del vino viene sempre citato a modello di “sistema” virtuoso. Sopexa aveva gioco più facile in una Nazione unita e forte, con pochi vitigni eccellenti da proporre (e li ha imposti benissimo, come ricorda anche Angelo Gaja, intervistato su Civiltà del bere 2/2017) e poche denominazioni storicamente ben definite (Champagne, Bordeaux, Borgogna…). Si potrebbe però partire dal basso, con mosse relativamente semplici, per diffondere il verbo dei nostri straordinari “territori culturali”.

Come promuovere il vino italiano

Ad esempio, impegnandoci affinché la scuola di formazione più diffusa al mondo, il Wset (Wine & Spirit Education Trust), estenda la conoscenza dell’Italia enologica nel programma d’esame. Migliaia di aspiranti professionisti del vino affrontano ogni anno questi studi e al nostro Paese è dedicato un giorno di lezione, diviso sommariamente tra Nord e Sud, contro almeno tre per la Francia, con sei focus sulle principali regioni viticole (Champagne, Bordeaux, Borgogna, Alsazia…). In questo contesto è azzardato sperare che il trade del futuro possa valorizzare, non diciamo 400, ma almeno 60 vitigni autoctoni, tre per regione.
L'editoriale di Alessandro Torcoli è su Civiltà del bere 2/2017. Per continuare a leggere la rivista acquistala sul nostro store (anche in formato digitale) o scrivi a store@civiltadelbere.com

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