Degustazioni

Orisi, il vino che non c’è di Santa Tresa

24 Ottobre 2022 Matteo Forlì
Orisi, il vino che non c’è di Santa Tresa

Stefano e Marina Girelli sono esploratori della sicilianità a Vittoria, nel segno della tradizione e dei vitigni autoctoni. Dall’uva-reliquia, riscoperta sui Nebrodi e non ancora riconosciuta nei registri ufficiali, è nata l’etichetta “O”. Presentata a Milano assieme a un vino da storico clone da Nero d’Avola e un Frappato in anfora.

Dalle Dolomiti alla terra rossa di Vittoria, alla ricerca della natura intima dei vini siciliani. Attraverso la sperimentazione di tecniche antiche, ad esempio la fermentazione in orcio di terracotta, e la riscoperta di vitigni dimenticati, come l’Orisi. I fratelli trentini Stefano e Marina Girelli, migranti enologici folgorati «da quell’ammaliante tavolozza di colori e profumi che è la Sicilia», nelle tenute di Santa Tresa e Cortese (50 ettari la prima, 14 la seconda ad appena 8 km l’una dall’altra) seguono il credo dei vini biologici e di una viticoltura sostenibile, fatta di biodiversità e nel nome di una economia circolare. Ma hanno anche iniziato una missione di ricognizione del tesoro ampelografico dell’isola.

Santa Tresa
Marina e Stefano Girelli

L’Orisi ritrovato

L’Orisi è un’autentica scoperta. «Secondo la letteratura», spiega Stefano Girelli alla presentazione in anteprima di tre nuovi vini a Milano, «si tratta di un incrocio spontaneo tra Sangiovese e Montonico bianco». È stato scovato in pochi esemplari nei vigneti più antichi dell’area dei Nebrodi, a Nord dell’Etna, nella cornice di un progetto di ricerca sui vitigni-reliquia promosso dalla Regione Sicilia.
«Abbiamo preso parte all’iniziativa con orgoglio», prosegue Girelli. «Siamo convinti che il recupero e la valorizzazione dei vitigni antichi rappresenti una concreta azione nella salvaguardia della biodiversità e dei territori storicamente vocati alla viticoltura. Abbiamo piantato appena 16 barbatelle, i cui genotipi provengono dalle Università di Palermo e Marsala, in un vigneto sperimentale, un fazzoletto di mezzo ettaro a Santa Tresa. Oggi ci sono 1.535 piante e nel 2020 abbiamo trasformato le loro uve in un vino che… non c’è». Definizione che sembra uscita dal Peter Pan di J. M. Barrie, ma l’etichetta innominabile in realtà un nome ce l’ha: Santa Tresa “O”, Terre Siciliane Igt 2020. Appena una lettera per rammentare come il percorso di riconoscimento sia solo all’inizio. Un inedito assoluto, ancora non in commercio, in appena 2 mila bottiglie.

Un vino che non c’è ma sa sorprendere

Arcaico il varietale, di antica tradizione anche le tecniche di vinificazione scelte per valorizzarlo. Alla fermentazione in botti da 17 ettolitri di rovere di Slavonia segue un periodo di sosta a contatto con le fecce nello stesso recipiente fino alla vendemmia successiva. «Una tecnica possibile solo con un’uva di una sanità immacolata. L’evoluzione è poco convenzionale ma ne esalta la peculiare personalità».
L’assaggio è una sorpresa: il colore, un rubino concentrato, smentisce i progenitori; l’esuberanza olfattiva – frutta fresca, note di spezie dolci e agrumate – fa altrettanto con le torride temperature medie dell’areale. Il tannino, deciso ma cesellato dalla particolare evoluzione, e il finale piacevolmente acido, timbro distintivo delle varietà siciliane, suggeriscono lunga vita e una storia evolutiva tutta da scrivere. «La nostra convinzione è che il futuro della viticoltura siciliana sia nei vitigni autoctoni, che meglio di tutti gli altri possono adattarsi al contesto pedoclimatico natale. E lo dimostra quest’uva, che ha reagito in modo sorprendente anche alle condizioni di un’annata a dir poco impegnativa come la 2021».

Una vecchia vigna di Nero d’Avola

Avulisi, omaggio alla tradizione

Artigianali, territoriali e figli di metodi antichi sono anche gli altri due vini presentati. Avulisi, Sicilia Rosso Riserva Doc 2018 di Santa Tresa (in siciliano Avulisi significa “abitante di Avola”) è «un omaggio al passato, perché è ottenuto da cloni di un Nero D’Avola provenienti dalla vigna più vecchia della tenuta, del 1962, che abbiamo ripiantato ad alberello, in coltura promiscua assieme agli ulivi e senza irrigazione», aggiunge Girelli. Fermentazione direttamente in barrique di rovere francese particolari, dotate di sportello per poter caricare le uve appena diraspate e che possono essere ruotate permettendo la permanenza del vino a contatto con le bucce per 40-45 giorni senza bisogno di batonnage. Il risultato è un vino scuro, concentrato; dal naso complesso di amarene, spezie; profondo ed elegante al palato.

Un Frappato diverso dal solito

Boscopiano, Frappato Doc 2019 di Cortese, prima annata prodotta, è un esempio completamente diverso della voglia dei Girelli di far innamorare tradizione e innovazione. Ispirato ai metodi di vinificazione ellenici «prevede l’uso di anfore ovali di terracotta da 7 ettolitri, che permettono moti convettivi per movimentare la biomassa visto che anche in questo caso abbiamo scelto una lunga macerazione sulle bucce, almeno un anno. Un processo che polimerizza il tannino e conferisce rotondità». Eleganza e carattere convivono in un Frappato molto distante dai canoni. Più pastoso, con tannini morbidi, buon frutto e tanta strada davanti a sé.

Foto di apertura: Santa Tresa si estende su 50 ettari nella zona di Vittoria

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